Che fine ha fatto il Recovery Fund? Bloccato dagli “alleati” di Conte a Bruxelles

Il fondo europeo anti-crisi da 750 miliardi non decolla e rischia di venire annacquato, se non del tutto annacquato, ai prossimi vertici in UE. E a "tradire" sono proprio gli alleati del premier Giuseppe Conte.
4 anni fa
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Non si parla più di “Recovery Fund”, eppure è stato il principale tema del dibattito europeo di questi mesi. Questo venerdì, il Consiglio UE dovrà confrontarsi sulla proposta cosiddetta “Next Generation EU” della Commissione, anche se il presidente Charles Michel ha avvertito che si tratterà di un incontro “interlocutorio”, cioè non risolutivo della questione. Con ogni probabilità, il confronto si protrarrà nel migliore dei casi fino a luglio, ma date le divisioni tra stati, non possiamo escludere che, complice la pausa estiva, se ne riparli concretamente a settembre.

Chi sperava aiuti imminenti in arrivo dall’Europa avrà già avuto modo di comprendere quanto velleitaria fosse tale prospettiva.

Il Recovery Fund della Commissione aiuterebbe l’Italia, ma forse troppo tardi

Il fondo, che la Commissione vorrebbe di 750 miliardi, di cui 500 in aiuti a fondo perduto, è avversato dai cosiddetti “Frugal Four”, gli stati del centro-nord d’Europa dai conti pubblici solidi. Parliamo di Austria, Olanda, Danimarca e Svezia. A questi si sono aggiunti da pochi giorni quelli del Gruppo Visegrad, cioè Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria e Slovacchia. E contraria parrebbe adesso pure l’Irlanda. Ieri, però, il leader della Lega, Matteo Salvini, ha comunicato di avere ricevuto un messaggio dal premier ungherese Viktor Orban, il quale si è detto favorevole ad accogliere le istanze italiane. Non sappiamo ancora cosa voglia dire nel concreto, ma sarebbe la risposta al premier Giuseppe Conte, che aveva chiesto alle opposizioni di farsi da tramite con Visegrad per ottenere sostegno alla posizione dell’Italia in Europa.

Ad oggi, il governo “giallo-rosso” ribatte alle critiche sostenendo che sarebbero “gli amici” delle opposizioni a bloccare il “Recovery Fund”, vale a dire i paesi “sovranisti” dell’Europa dell’est. In realtà, ben prima di Visegrad, ad opporsi al fondo sono proprio gli stati politicamente vicini al premier, quei partiti centristi e di sinistra, al governo in tutte le capitali che si sono dichiarate contrarie.

Vienna è governata da una coalizione tra Popolari e Verdi; L’Aja è retta da una maggioranza liberale, centrista e della sinistra moderata; Copenaghen è in mano ai socialdemocratici, così come Stoccolma. Trattasi di partiti che sostengono tutti la “maggioranza Ursula” all’Europarlamento, insieme a Movimento 5 Stelle e PD.

Aiuti in forse e tardivi

Queste formazioni premono sul governo per ottenere che il fondo non venga usufruito dai governi in assenza di condizioni, tra cui il varo di un piano di riforme economiche e per il risanamento fiscale, ma anche che i prestiti vengano elargiti solo in minima parte a fondo perduto e che il loro finanziamento non avvenga, se non marginalmente, attraverso emissioni obbligazionarie (debito comune) sui mercati finanziari, bensì potenziando il bilancio comunitario; infine, che ciascuno stato rimanga esposto verso il fondo sulla base degli aiuti ottenuti e non della sua incidenza economica, così da evitare che chi meno prende venga chiamato a contribuire per una quota superiore al suo pil, finanziando indirettamente i debiti di chi abbia fatto maggiormente ricorso agli aiuti.

Tutte queste criticità è difficile che vengano superate al vertice del 19 giugno. Altro problema riguarda i tempi delle erogazioni, perché essendo il fondo legato al prossimo bilancio comunitario per gli anni 2021-2027, gli aiuti fluirebbero agli stati in difficoltà solamente a partire dall’anno prossimo e verrebbero spalmati fino a 7 anni, attraverso rate periodiche a loro volta pagate dietro il rispetto di precise condizioni, ossia dell’ottemperanza agli impegni assunti sul piano delle riforme. In pratica, rischiamo di non vedere il becco di un quattrino, visto quanto poco siamo in grado già oggi di attingere ai fondi europei. Per contro, dovremmo contribuire pro-quota al finanziamento del fondo per complessivi circa 96 miliardi in 7 anni, soldi che uscirebbero certamente dalle tasche dei contribuenti italiani.

Ipotesi almeno parzialmente alternativa sarebbe di finanziare il fondo con il gettito fiscale di nuove imposte, tra cui una da 10 miliardi sulle imprese transnazionali più grandi, quelle che operano in tutta la UE; altri 10 miliardi arriverebbero dalla revisione dei diritti di emissione di CO2; 7 miliardi da una stangata sui rifiuti di plastica non riciclabile e qualche miliardo eventualmente dalla “web tax”, cioè l’imposta sui giganti di internet, ma che vede gli USA fortemente contrari. Abbiamo festeggiato troppo presto la nascita di un fondo, che se mai decollerà, sarà molto diverso da come lo abbiamo immaginato. L’Italia non potrà confidarvi per attutire la sua crisi economica e fiscale nei prossimi mesi.

Recovery Fund, il contributo netto all’Italia scende a 57 mld e sarà condizionato

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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