Un “working paper” dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (INAPP), pubblicato sul suo sito in lingua inglese, ha trovato risultati interessanti sugli effetti del cosiddetto “smart working”, il “lavoro agile” a cui milioni di italiani hanno dovuto ricorrere in piena emergenza Covid. A parte che si è trattato essenzialmente di espletare a casa le medesime mansioni svolte in ufficio, sottolinea lo studio, dalla ricerca è emerso che in Italia esso sarebbe finito per favorire i lavoratori che già percepivano redditi più alti, traducendosi in un premio medio di 2.600 euro lordi all’anno, il 10% di un reddito da lavoro medio, ma che rapportato ai livelli salariali medi dei lavoratori con minore propensione al telelavoro sale decisamente di incidenza.
Secondo l’INAPP, l’identikit-tipo dello smart worker italiano in emergenza Covid è stato uomo, perlopiù sposato con figli, laureato, età media, residente in una provincia del centro-nord e con stipendio medio-alto. Questo, perché alcune professioni si prestano certamente meglio per essere condotte anche da casa, mentre altre meno. I risultati della ricerca non puntano il dito contro lo smart working, volendo essere un pungolo al governo, affinché adotti soluzioni di sostegno ai redditi medio-bassi, quelli che sono rimaste statisticamente più vittime della pandemia.
Il telelavoro rivoluzionerà il nostro modo di vivere e anche il mercato immobiliare
In effetti, è accaduto che fino a circa 5 milioni di italiani hanno potuto continuare a percepire lo stipendio lavorando da casa, mentre per altri è risultato impossibile mantenere gli stessi livelli di reddito, non potendo svolgere la mansione da casa. Si pensi ai lavori manuali, che certo di rado possono essere espletati fuori dalla fabbrica o dal cantiere. Dunque, il Coronavirus ha decretato vincitori e vinti, almeno temporaneamente, sul mercato del lavoro.
Superate le logiche del passato
Tutto vero, ma semmai questa ricerca dovrebbe solo spronarci a interrogarci su quale futuro desideriamo per l’Italia.
La retorica della disuguaglianza ha ucciso il mercato del lavoro italiano con un livellamento salariale ingiusto, vuoi perché i tassi di produttività crescono in misura molto diversa da comparto a comparto, vuoi anche per l’assurdità di un lavoro anche alto-impiegatizio, ormai quasi equiparato in busta paga a quello manuale non qualificato. Così, si disincentiva la formazione, l’accumulo di conoscenze, i quali eppure sono le molle che consentono a un’economia di compiere quel “salto” necessario per crescere e generare maggiore ricchezza, eventualmente da distribuire anche a beneficio delle classi meno avvantaggiate.
Lo smart working ha posto in evidenza che al giorno d’oggi bisogna puntare sull’accumulo delle conoscenze e sulla “personalizzazione” del lavoro per risultare quanto più preparati ai cambiamenti. E’ vero che non tutti possano lavorare da casa, perché il lavoro manuale e la presenza fisica sul luogo di lavoro continueranno a risultare determinanti per milioni e milioni di persone. Si pensi all’edilizia e alla manifattura più in generale. Ma bisogna minimizzare i casi di questa dipendenza fisica, spronando il mercato del lavoro ad agganciare il terzo millennio e a non restare imbrigliato in logiche ormai superate.
Una rivoluzione già in atto
L’era del lavoro in ufficio dalle 8 alle 17 è finita.
Ecco perché lo smart working non è nemico dei bar
Consideriamo, infine, che la disparità di cui parla lo studio ha riguardato questo periodo eccezionale, in cui i “lockdown” hanno impedito a milioni di persone di lavorare. In condizioni ordinarie, tuttavia, gli smart workers non percepirebbero alcun reddito in più rispetto ai lavoratori tradizionali; semplicemente, i primi lo farebbero con modalità estranee ai secondi. Potrebbero essere invidiati per la maggiore flessibilità goduta, ma questo non è un male. La disuguaglianza generata dal merito, dalle conoscenze, dalla qualifica non è mai un fattore negativo, anzi incentiva l’individuo a migliorarsi per entrare a far parte della fascia più promettente.