Per i giovani lavoratori la pensione sarà un miraggio. Stretti a tenaglia fra le precedenti riforme del sistema previdenziale e la crisi da Covid-19.
Inutile farsi illusioni. In Italia è stato concesso troppo e ingiustamente fino agli anni ’90 gonfiando a dismisura i trattamenti pensionistici con un sistema di calcolo (retributivo) che ha costretto lo Stato a intervenire allegramente. Il conto lo pagheranno le nuove generazioni.
Giovani lavoratori senza pensione
Nessuna riforma sarà in grado di dare una pensione dignitosa, al pari dei predecessori, a chi ha iniziato a lavorare dal 1996.
La crisi economica e il crollo del Pil
Già, la pandemia. I giovani lavoratori non lo sanno, ma la decrescita economica del Paese impatterà anche sulle pensioni future. Coloro che percepiranno una pensione calcolata in tutto o in parte sul regime contributivo si vedranno una rivalutazione penalizzata dal Pil negativo. In tale regime, infatti, il montante dei contributi sociali utili per la pensione viene rivalutato periodicamente in base all’andamento del Pil italiano. E una forte caduta del prodotto interno lordo nel 2020 (la stima è del 10 per cento), avrà sicuramente effetti negativi sul montante contributivo dei lavoratori soggetti a tale regime. E quindi sugli assegni pensionistici. Gli esperti hanno già ipotizzato, facendo il paragone col passato, che un operaio che andrà in pensione nel 2035 con 40 anni di contributi percepirebbe il 25% in meno del suo omologo che è andato in pensione negli anni ’90 con 20 anni, 6 mesi e 1 giorno di contributi.
Le pensioni integrative
Quali soluzioni ci sarebbero per chi ha iniziato a lavorare dal 1996 e oggi potrebbe avere più di 40 anni di età? Secondo Michaela Camilleri del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali l’unica soluzione attuabile è il ricorso alla previdenza complementare, in grado di compensare le mancate aspettative del sistema pensionistico pubblico. Analizzando i dati dell’ultima relazione Covip, però, emerge che “la fascia dei giovani costituisce solo una piccola fetta degli iscritti alla previdenza complementare. Probabilmente perché, da un lato, la retribuzione percepita all’inizio dell’attività lavorativa è considerata troppo modesta per immaginare di destinarne anche solo una piccola parte al fondo pensione e, dall’altro, il momento del pensionamento appare così lontano nel tempo da passare in secondo piano rispetto ad altre priorità”. In altre parole, mancano i soldi per potersi fare una pensione integrativa. Del resto anche i salari sono in discesa e la destinazione di una quota del Tfr accantonato alla previdenza complementare di per sé non è sufficiente ad assicurare un decente tenore di vita al momento del pensionamento. D’altro canto – osserva Camilleri – “i soggetti che hanno maggiore necessità di una pensione complementare sono proprio le generazioni più giovani”. Occorre quindi “intraprendere adeguate campagne informative al fine di incentivare le adesioni specialmente dei soggetti più scoperti”. Non aspettiamoci che il governo, come d’incanto, possa riformare il distorto sistema pensionistico italiano perché non sarà così.