L’Italia non cresceva già da quasi 30 anni prima del Covid e adesso rischia di tornare ai livelli reali del pil di inizio anni Novanta. Se la pandemia colpisce un po’ tutte le economie della Terra, i tempi di recupero per la nostra rischiano di essere molto più lunghi. Crisi del 2008-’09 insegna. Per capire perché, basterebbe forse scorrere la classifica degli uomini italiani più ricchi. I Paperoni si chiamano: Giovanni Ferrero, a capo del colosso alimentare omonimo e che tra l’altro produce la Nutella: 32 miliardi di dollari di patrimonio; seguono Leonardo Del Vecchio di Luxottica con 20,4 miliardi, i fratelli Gianfelice Mario e Paolo Rocca di Techint con 8,2 miliardi, Silvio Berlusconi con 7,17 miliardi e Giorgio Armani con 6,23 miliardi.
I 5 uomini più ricchi in Italia: chi sono i miliardari nazionali
Cosa ci dice questo primo spicchio di classifica? Anzitutto, che l’età media dei top five miliardari italiani sfiora i 75 anni. Secondariamente, sono tutti imprenditori attivi in settori maturi e tradizionali dell’economia: alimentare, moda e accessori, telecomunicazioni e acciaio. Tanto di cappello per le capacità, che non vogliamo minimizzare in alcun modo. Semplicemente, non possiamo non notare che l’arricchimento sia avvenuto nei decenni passati e mai in un settore oggi da considerarsi innovativo.
Prendiamo l’America. I primi 5 uomini più ricchi si chiamano Jeff Bezos di Amazon (196 miliardi), e Bill Gates di Microsoft (114 miliardi), Mark Zuckerberg di Facebook (100 miliardi), Elon Musk di Tesla (84,8 miliardi) e Warren Buffett di Berkshire Hathaway (84 miliardi). Età media: 59 anni, 16 in meno dell’Italia, con 2 under 50, di cui uno under-40. Ma, soprattutto, si tratta perlopiù di imprenditori attivi in campi innovativi, che spaziano dall’informatica alle vendite online, passando per le auto elettriche e i social. Buffett fa eccezione, essendo a capo di un fondo d’investimento con ramificazioni un po’ ovunque. A fine mese, compie 90 anni.
Il modello americano vince
In pratica, questi super ricchi americani sono diventati tali nell’arco degli ultimi 20-30 anni, anche meno, come nel caso di Zuckerberg o di Bezos, quest’ultimo sconosciuto ai più fino a pochissimi anni fa e oggi diventato l’uomo più ricco al mondo. Alla base di questo arricchimento vi sono state l’innovazione, la capacità di rischiare in attività giudicate inizialmente persino una perdita di tempo e di denaro. Chiaramente, l’inventiva c’entra fino a un certo punto, forse marginalmente. Un Bezos italiano si sarebbe scontrato verosimilmente con le corporazioni del retail tradizionale e non avrebbe nemmeno potuto avviare l’attività di vendite su internet oltre certe dimensioni.
E che dire di un Musk? Chi gli avrebbe prestato le decine di miliardi di dollari necessari per avviare un business ostile a quello delle auto con motore alimentato dal carburante? Il capitalismo relazionale avrebbe fatto scudo attorno a realtà come Fiat Chrysler per impedire la nascita di un concorrente “esterno”. E pensate che sarebbe mai potuto nascere un fenomeno Zuckerberg nelle università del Bel Paese? Sarebbe stato oggetto di derisione e scherno da parte dell’imprenditoria e del sistema bancario, perché nessuno avrebbe mai scommesso su un’attività che fattura mettendo in comunicazione persone residenti in qualsiasi parte del mondo.
Per essere sinceri, non è solo l’Italia a soffrire di questo capitalismo gerontocratico e con la testa rivolta al passato. Non si hanno notizie di grosse realtà multinazionali come quelle della Silicon Valley nel resto d’Europa, nemmeno nella pur tanto invidiata Germania. Burocrazia, familismo, alta tassazione e forte ingerenza dei governi negli affari dei privati limitano le possibilità di sviluppo nel Vecchio Continente, dove per inventiva e conoscenze non esisterebbe alcunché da invidiare agli americani, i quali effettivamente importano gran parte delle risorse umane dal resto del mondo per sopperire alla carenza di “cervelli” in patria.
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