Dopo Argentina, Libano, Ecuador, Belize e Suriname, anche lo Zambia è alle prese quest’anno con problemi di rispetto delle scadenze e, anzi, è andato ufficialmente in default dopo il termine dei 30 giorni del periodo di grazia in relazione al pagamento di una cedola da 42,5 milioni di dollari. Lusaka aveva cercato di arrivare a un accordo con i creditori, proponendo loro il rinvio dei pagamenti per sei mesi fino all’aprile del prossimo anno. Questi non hanno accettato l’offerta, anche perché degli oltre 11 miliardi di debito estero del paese, 3 miliardi sono le esposizioni verso la Cina.
Il caso sta diventando molto più interessante di quanto potremmo supporre se ci limitassimo al solo fatto che si tratti di una piccola economia emergente. Lo Zambia potrebbe fare scuola per dirimere in futuro le controversie tra creditori e stato. I problemi qui si hanno essenzialmente per due ragioni: il debito è in mano a creditori non omogenei e risulta essere di varia natura. Ad esempio, i prestiti cinesi non si riescono facilmente a inquadrare né tra i bilaterali e né tra quelli commerciali.
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Il possibile caso-scuola dello Zambia
Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) non può fare altro che guardare, dato che il governo non intende aderire ad alcun accordo per ottenere un prestito e superare la contingenza. L’istituto nota, però, che i default sovrani si stanno moltiplicando (furono solo tre nell’anno della crisi finanziaria mondiale), anche perché rispetto al passato si hanno maggiori difficoltà a gestire le crisi fiscali.
Se lo Zambia non si mostrasse capace presto di trovare un’intesa con i creditori privati, l’FMI potrebbe desumerne che bisogna rafforzare strumenti come le Clausole di Azione Collettiva (CACs) e favorire processi di pari trattamento tra i debiti commerciali e quelli di natura finanziaria. Infine, l’istituto non esclude neppure più di proporre una legislazione che assegni agli emittenti sovrani una sorta di scudo per proteggerli dai creditori riluttanti, vale a dire coloro che non accettano le condizioni offerte dagli stati con riguardo alle ristrutturazione dei debiti.
Simili proposte rischiano di accentuare il solco tra stati fiscalmente solidi e quelli percepiti più deboli. Pur partendo dalle buone intenzioni di accelerare i tempi di risoluzione delle crisi e dalla volontà di renderli più efficaci e standardizzati, gli investitori finirebbero per scartare i bond emessi dagli stati in condizioni finanziarie più difficili, acuendone i problemi fiscali. E sappiamo che la stessa Unione Europea vorrebbe intervenire sulle CACs, ma proprio nel Sud Europa si registrano le maggiori resistenze, essendo l’area più esposta all’eventuale sfiducia dei mercati.
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