Se ne parla poco, forse per scarsa conoscenza del settore più che per mancata considerazione, fatto sta che la crisi delle lavanderie resta ignorata. E non riguarda solo l’Italia. Quest’anno, già un’attività su sei ha chiuso o è andata in fallimento negli USA. Lì, a rischio vi sono 7 miliardi di dollari di fatturato all’anno e 120.000 posti di lavoro. Quello che sta accadendo è sotto gli occhi di tutti: l’emergenza Covid ha rinchiuso in casa miliardi di persone nel mondo con il primo lockdown di marzo (molte meno in questa seconda ondata), facendo collassare alcune attività strettamente legate alla mobilità e allo star fuori, come bar, ristoranti, compagnie aeree e, per l’appunto, le lavanderie.
A New York, con il ritorno al lavoro negli uffici di questa estate molte di esse hanno ripreso a lavorare al 40-50% dei livelli pre-Covid, troppo poco per tirare avanti. In Italia, parliamo di 17 mila imprese, 50 mila lavoratori, di cui i due terzi donne, e un fatturato di 2,5 miliardi di euro tra lavanderie tradizionali e industriali. Secondo Assosistema Confindustria, le sole lavanderie industriali perderanno quest’anno 400 milioni di ricavi, con grossi cali che si stanno concentrando nelle grandi città.
Le lavanderie stanno soffrendo per il semplice fatto che molti lavoratori stanno in smart working, cioè non si recano in ufficio e non viaggiano, né tengono riunioni di presenza. In questi mesi di emergenza sanitaria, Zoom ha sostituito le conferenze fisiche e la scrivania di casa si è trasformata in ufficio. Naturale che tutte le attività che forniscono servizi legati alla mobilità ne stiano risentendo pesantemente. Ad aggravare il quadro ci ha pensato il tracollo del turismo. Gli alberghi quest’anno hanno lavorato a una minima frazione della loro capacità. I posti letto occupati anche in estate sono stati del 70-80% in meno e questo si è tradotto in una minore domanda di lavaggi di lenzuola, asciugamani, tovaglie da tavola, divise e indumenti dei dipendenti, etc.
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La crisi strutturale delle lavanderie, non c’è solo il Covid
Bisogna attendere il ritorno alla normalità per veder tornare le lavanderie a lavorare come prima. In tal senso, le notizie sui vaccini a disposizione già a partire tra alcune settimane suonano favorevolmente. Ma se ristoranti, alberghi, bar e compagnie aeree potranno contare sulla fine della pandemia, le lavanderie sono un settore strutturalmente a rischio, almeno quelle di dimensioni minori. Già prima del Covid, un sondaggio realizzato da IBISWorld per gli USA aveva trovato, ad esempio, che queste attività versassero in crisi anche per lo stile meno curato, casual a cui un crescente numero di colletti bianchi si rifà sul posto di lavoro.
Insomma, staremmo diventando più informali, meno ricercati. Del resto, i pullover del compianto Sergio Marchionne o le T-shirt di Mark Zuckerberg hanno fatto scuola nel mondo degli affari (e non solo), sdoganando un modo di vestire più sbarazzino, specie tra i “millenials”, a cui già un certo “dress code” non andava giù di loro. Ma forse il vero punto è un altro: lo smart working non finirà con la pandemia. Milioni e milioni di lavoratori in più nel mondo resteranno a casa e smetteranno di andare in ufficio. Le videoconferenze, di cui si è fatta di necessità virtù sin dalla scorsa primavera, potrebbero diventare il “new normal” del mondo del lavoro. E se non ci si deve presentare curati a una riunione con il capo e/o tra colleghi, si potrà fare a meno della lavanderia. In videochat non si notano i dettagli di un vestito, non si capisce se il tessuto sia sgualcito o un po’ scolorito.
Se le cose andranno esattamente così, a rischio non vi sarebbero solo le lavanderie, bensì pure il comparto moda. Uscire di casa per andare al lavoro tutti i giorni richiede certamente un guardaroba più ricco e ricercato. In casa, ci si potrà mettere comodamente in tuta o casual e, se serve, vale quanto sopra detto. Il mondo sta cambiando a rapidi passi e tante attività rischiano l’ecatombe. Non dimentichiamoci delle lavanderie, perché presto molte insegne potrebbero essere spente per sempre.
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