Arrivare a perdere 3 miliardi di capitalizzazione in borsa in 3 giorni, salvo chiudere ieri in leggero rialzo, è stato un duro colpo per Unicredit, che al termine della seduta di ieri valeva a Piazza Affari quasi 18 miliardi di euro, meno del 30% rispetto al patrimonio netto di pertinenza, pari a 60,7 miliardi al 30 giugno scorso. Cos’è successo lo sappiamo. Lunedì, l’Amministratore Delegato Jean-Pierre Mustier ha annunciato che lascerà la guida della banca al termine del suo mandato, che scade in aprile. Non si ricandiderà per un terzo triennio.
Il francese è stato da sempre contrario alle aggregazioni e ha in mente un percorso che dovrebbe portare allo scorporo delle attività straniere, le quali confluirebbero in una newco di diritto tedesco. La sua persona era divenuta assai ingombrante negli ultimi mesi per il caso MPS. Nessuno vuole accollarsi la banca più antica del mondo e le pressioni del governo su Piazza Gae Aulenti si sono fatte sempre più forti in tal senso. In ottobre, poi, il board sceglieva Pier Carlo Padoan quale presidente designato di Unicredit, un segnale palese che almeno parte della banca sarebbe propenso alle nozze con MPS.
Ma per dirla con le parole di Andrea Bonomi, “il mercato non apprezza le interferenze politiche”. Il presidente di Confindustria ha spiegato ieri che nel caso in cui Unicredit acquisisse MPS, gli investitori vorrebbero conoscere il business plan che vi è alla base. Quando manca la chiarezza, invece, non possono che vendere.
La nomina di Padoan a presidente di Unicredit è un problema per MPS e politica
La situazione peculiare di Unicredit
Unicredit è una public company, cioè non ha azionisti di controllo stabili, in quanto il suo capitale risulta polverizzato tra una miriade di investitori.
Sarebbe un bel paradosso se un’operazione orchestrata dal governo per consolidare il panorama bancario domestico accollando MPS a Unicredit aprisse la strada a una scalata straniera ai danni proprio della seconda e che esiterebbe il trasferimento all’estero del controllo di grossa parte degli assets bancari italiani. Poche settimane fa, il Copasir lanciava l’allarme con riferimento agli appetiti della finanza francese.
Certo, viene da pensare che in una situazione ancora così confusa e, soprattutto, con la chiara interferenza del governo nelle vicende bancarie e industriali, forse nessuno fuori dai nostri confini (e neppure dentro) vorrebbe rischiare i suoi capitali per fare ingresso in Unicredit. Il caso Vivendi, messa all’angolo dalla politica in TIM e praticamente annullata in Mediaset, ha segnalato che la finanza straniera in Italia non è desiderata quando di mezzo ci sono assets sensibili. E con l’eventuale fusione, il Tesoro si ritroverebbe ad essere tra i primi soci di Unicredit, altro motivo per cui il mercato se la starebbe dando a gambe levate. Agli attuali valori di borsa, lo stato deterrebbe una quota di almeno il 4,3% della nuova entità post-fusione, dietro solo a BlackRock e Capital Research. Ma calcoli di Equita parlano di una quota finanche dell’11%, per cui il primo azionista della banca sarebbe lo stato.
Mustier lascerà Unicredit, nozze in vista con MPS e nuove perdite a carico dello stato