Il 2019 si è chiuso con una piccola crescita per l’economia della Corea del Nord, stando a Statistics Korea. Il suo PIL sarebbe aumentato dello 0,4%, dopo il -3,5% del 2017 e il -4,1% del 2018. Un piccolo segnale di ripresa, che fa già parte, però, del passato. Secondo le stime dell’istituto sudcoreano, il PIL pro-capite nello stato eremita si sarebbe attestato a 1,41 milioni di won, -20.000 rispetto al 2018 e pari solamente a 1.288 dollari, poco più di 100 dollari al mese. Si tratta di un importo del 4% rispetto ai livelli medi nella Corea del Sud.
Queste sono le condizioni con cui Pyongyang si è presentata all’appuntamento inatteso con il Covid, che ha costretto il giovane dittatore Kim Jong-Un a sbarrare le frontiere, quasi azzerando quel poco di interscambio commerciale ancora esistente. L’import/export con la Cina risulta crollato del 75% nei primi 10 mesi del 2020. Le ridotte importazioni avrebbero fatto quadruplicare mediamente i prezzi di beni come lo zucchero e i generi alimentari stagionali. Una situazione di allarme per la tenuta della pace sociale, che ha indotto il regime comunista ad accrescere la repressione contro il mercato nero, particolarmente ai danni dei cambiavalute.
Secondo un report in possesso di Seul, uno di questi sarebbe stato condannato a morte in ottobre per essersi reso responsabile delle ampie oscillazioni del cambio. Il won è stato artificiosamente rivalutato contro dollaro e yuan e a doppia cifra, al fine di disincentivare i nordcoreani a convertire i loro risparmi in valute straniere per difenderli dalla perdita del potere di acquisto. Ma questa situazione sta creando molto malcontento, perché le famiglie temono di restare con carta straccia nel portafogli e non starebbero ugualmente desistendo dal domandare dollari, in particolare, ritenendo le restrizioni temporanee.
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Incubo carestia e frustrazione
Ufficialmente, nel paese non vi sarebbe un solo contagiato dal Covid, ma le misure molto dure imposte dal regime farebbe pensare altrimenti. Semmai la pandemia non si sarà diffusa granché, anche perché tra chiusura delle frontiere e minaccia di spedire nei campi di rieducazione coloro che non rispettano le restrizioni, il messaggio che arriva dai vertici dello stato appare quasi di panico. Non è difficile immaginare il perché. Gli ospedali nordcoreani non sarebbero in grado di affrontare una simile emergenza sanitaria, essendo dotati di apparecchiature che risalgono agli anni Sessanta e Settanta.
Per questo, Kim Jong-Un cerca la svolta. Dopo essere apparso in pubblico per 53 volte quest’anno, punta a rilanciare la propria immagine all’ottavo congresso del Partito dei Lavoratori, convocato per gennaio. In quell’occasione, il Politburo dovrebbe discutere delle linee guida sul futuro del paese, anche se le emergenze impediranno quasi certamente un dibattito dall’ampio respiro sulle riforme di cui l’economia avrebbe bisogno per crescere a ritmi accettabili. C’è il serio timore che nel caso in cui la pandemia non si arrestasse entro il 2021 e le frontiere dovessero essere tenute necessariamente chiuse, la Corea del Nord riviva l’incubo della carestia degli anni Novanta, quando morirono due milioni di persone per fame (quasi un decimo della popolazione), a seguito di raccolti insufficienti e dell’assenza di aiuti dal blocco sovietico, sgretolatosi qualche anno prima.
Oltretutto, il senso di frustrazione potrebbe rivelarsi il sentimento dominante al congresso. Dopo 4 anni di amministrazione Trump e tre incontri “storici” tenutisi con il presidente americano, di progressi sul piano diplomatico neanche con il binocolo. L’isolamento internazionale di Pyongyang è anzi cresciuto, a causa dell’indisponibilità del regime di abbandonare i suoi piani nucleari.
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