Nel suo discorso sullo stato della nazione, pronunciato davanti alla nuova Assemblea Nazionale, il presidente Nicolas Maduro ha snocciolato una serie di cifre spaventose sulla salute dell’economia nel Venezuela, di fatto ammettendone il collasso. Ha dichiarato, ad esempio, che nel 2020 sono entrati dollari per il 98,6% in meno rispetto al 2013, anno in cui è arrivato alla presidenza dopo la morte di Hugo Chavez: appena 743 milioni contro 50 miliardi. Ha fissato un obiettivo di produzione per il petrolio di 1,5 milioni di barili al giorno per quest’anno, meno dei 2 milioni del 2020.
E poiché il petrolio è stato e resta essenzialmente l’unico bene esportato dal Venezuela, il prosciugamento della sua produzione e il crollo delle quotazioni sin dal 2014 hanno impattato in maniera devastante sul tasso di cambio, che dall’agosto 2018 è stato parzialmente liberalizzato, sostituendo il “bolivar fuerte” con il “bolivar soberano”. Dal mese di dicembre, perde il 60% contro il dollaro, anche perché il paese è sì uscito formalmente dall’iperinflazione, ma la crescita annua dei prezzi continua ad attestarsi al 1.858%, la più alta al mondo.
Ieri, per acquistare un dollaro sul mercato bisognava sborsare circa 1 milione e 600 mila bolivares. Considerate che rispetto al “bolivar fuerte” in vigore fino a due anni e mezzo fa, dalle nuove banconote sono stati tolti cinque zeri, per cui sarebbe come affermare che oggi servirebbero 160 miliardi di vecchi bolivares contro un dollaro. E fino alla parziale liberalizzazione del cambio, il tasso ufficiale era ridicolmente di 1:10.
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Dollarizzazione del Venezuela in corso da anni
Poiché pagare in valuta locale non ha senso ed è materialmente molto complicato e dispendioso (guardate questo interessante video su YouTube sulla testimonianza di un italiano in vacanza in Venezuela: clicca qui), ormai i due terzi degli scambi avvengono in dollari, sebbene Maduro abbia ribaltato le cifre, sostenendo che la principale valuta di pagamento resti il bolivar.
La dollarizzazione dell’economia venezuelana è nei fatti. Già oggi, i beni sono disponibili solo per coloro che pagano in valuta americana. Per tutti gli altri, scaffali vuoti. Del resto, il PIL è crollato dell’86% sotto Maduro e in 7 anni consecutivi di recessione. Sembrano lontanissimi i tempi in cui il Venezuela fosse tra le economie più floride al mondo. Erano gli anni Settanta. Ma ancora a fine anni Novanta, i “chavisti” ereditavano un’economia relativamente benestante e tra il 1999 e il 2014 entravano quasi 1.000 miliardi di proventi petroliferi. Denaro, che è andato sprecato in politiche clientelari e assistenziali, mentre altrove – vedi Arabia Saudita e Norvegia, in primis – è stato utilizzato per accrescere la ricchezza finanziaria e il benessere della popolazione.
I tassi di povertà relativa sono stimati al 96% dalle università locali, quella assoluta al 79,3%. Maduro ha citato numeri del tutto diversi: 17% per la prima, 4% per la seconda. La “rivoluzione bolivariana” è affogata in un mare di miseria, quando avrebbe dovuto far nascere il “paradiso socialista”, un mondo alternativo al capitalismo esportato dall'”imperialismo americano”. L’ultimo dei problemi, a questo punto, sembra il default del 2017, a seguito del quale il Venezuela ha sospeso i pagamenti di cedole e capitale per i suoi bond sovrani, quelli della compagnia petrolifera statale PDVSA e della compagnia elettrica nazionale.
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