Quando Mario Draghi ha letto la lista dei ministri venerdì sera, il premier ha spiazzato un po’ tutti, ad iniziare dai partiti. Dei 23 componenti dell’esecutivo, i “tecnici” sono appena 8, mentre i politici sono 15: 4 per il Movimento 5 Stelle, 3 a testa per Lega, PD e Forza Italia, 1 a testa per Leu e renziani. Una formazione da manuale Cencelli, frutto di equilibri delicati e forse impossibili da trovare tra forze così differenti. Ma i soli numeri poco dicono di quanto sia realmente accaduto.
Silvio Berlusconi è profondamente irritato per avere ottenuto 3 ministri a lui non graditi, cioè Renato Brunetta, Mariastella Gelmini e Mara Carfagna, tutte personalità non propriamente controllabili dal Cavaliere. E, soprattutto, nessuno con portafoglio. Trattasi dei cosiddetti ministeri “minori”. Brunetta torna alla Funzione Pubblica, dove non si mietono esattamente consensi, trovandosi spesso in contrasto con il folto mondo dei dipendenti pubblici. Insomma, una mezza fregatura per colui che si era speso più di tutti e per primo nel centro-destra a favore di Draghi.
Il Movimento 5 Stelle porta a casa solamente un ministero di spesa, quello all’Agricoltura con Stefano Patuanelli, forse l’unico “grillino” rivelatosi competente nei precedenti esecutivi. Per il resto, perde il controllo dei ministeri di peso e si riduce a una forza poco influente nel Consiglio dei ministri. Da primo gruppo in Parlamento, avrebbe dovuto giocarsi meglio le sue carte, ma ancora una volta si è dimostrato non all’altezza delle trattative. Aveva puntato tutto sulla figura di Giuseppe Conte, non riuscendo a comprendere che fosse prossimo alla caduta. Ed è rimasto con in mano un pugno di mosche, lacerato tra governisti e chi al governo non vuole proprio dare la fiducia. Parliamo di una trentina di parlamentari, di cui 10 senatori, che avrebbero intenzioni almeno di astenersi.
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La sconfitta del PD
La Lega prende tre ministri, di cui due con portafoglio e di peso: Sviluppo Economico con Giancarlo Giorgetti e Turismo con Massimo Garavaglia. Posizioni che consentiranno al Carroccio di gestire in prima persona dossier aziendali delicati (da Alitalia all’Ilva, passando per Autostrade, etc.) e al contempo la ripresa delle attività produttive dopo il Covid. E il turismo sarà un settore molto delicato, essendo stato il più colpito dalla pandemia e i cui operatori nutrono maggiori aspettative da questo esecutivo.
Infine, il PD. Due i ministeri di peso: Difesa e Lavoro. Tuttavia, nessuno che abbia le potenzialità di accrescere i consensi del partito. Al Lavoro, Andrea Orlando avrà il compito assai delicato di gestire lo sblocco dei licenziamenti tra un mese e mezzo. Nicola Zingaretti ha, intanto, perso: il premier su cui aveva puntato per formare la famosa “alleanza progressista”; la “golden share” per eleggere il prossimo presidente della Repubblica, dato che molto probabilmente il successore di Sergio Mattarella sarà proprio il nuovo premier; ministeri-chiave come l’Economia, attraverso i quali si era ripreso il controllo dei gangli del potere dopo la breve parentesi “giallo-verde”. E per giunta si ritrova alleato al governo della Lega, contro cui necessariamente per tutta la durata del governo dovrà venire meno la retorica dell’anti-razzismo e dell’anti-fascismo, sulla quale il Nazareno si era voluto caratterizzare dopo la disfatta elettorale del 2018.
I democratici escono da grandi sconfitti nella formazione del nuovo governo. Dopo il naufragio delle trattative per il Conte-ter, pensavano che avrebbero almeno potuto costruire una maggioranza “Ursula”, cioè allargare quella “giallo-rossa” a Forza Italia per restare gli azionisti di riferimento dell’esecutivo e al contempo ghettizzare la Lega, rendendole più improbabile l’approdo futuro a Palazzo Chigi.
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Tra nuovi “lockdown” e retaggi del metodo Conte
Ma questo governo debutta con una squadra modesta, non certo “dei migliori”. I tecnici saranno anche di profilo, ma tra le nomine politiche s’insinuano diversi esponenti del precedente esecutivo, i quali non hanno brillato certo per competenza. Ieri sera, a 12 ore dall’inizio della stagione sciistica, il ministro della Salute, Roberto Speranza, ha annunciato che la riapertura degli impianti avverrà non prima del 5 marzo prossimo, accogliendo la richiesta in tal senso arrivatagli dal consulente Walter Ricciardi, il quale chiede un “lockdown” totale contro le varianti del Covid. Questo metodo della decisione all’ultimo minuto va da sé che sia un retaggio dei due anni e mezzo di Conte e che non possano essere più tollerati dalle categorie produttive. Questo “modus operandi” accentuerà lo scontro con la Lega, in particolare, che difenderà d’ora in avanti al Consiglio dei ministri gli interessi delle piccole e medie imprese e di quel nord attaccato brutalmente dai “giallo-rossi” con provvedimenti e dichiarazioni spesso dal sapore punitivo, più che scientifico.
Draghi dovrà prendere in mano da subito la situazione e rimettere mano al team che sinora ha gestito discutibilmente l’emergenza sanitaria. Figure come Ricciardi e il commissario Domenico Arcuri hanno mostrato tutti i loro limiti e dovrebbero essere messe in discussione se si vuole giungere a un minimo di armonia dentro l’esecutivo. Lo scontro di queste ore tra governatori del nord e Speranza la dice lunga sull’urgenza con cui Draghi dovrà rendere più compatibile il diritto alla salute con quello al lavoro.
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