Nel 2013 lo definirono “taper tantrum”, letteralmente “la collera da frenata (degli stimoli monetari)”. Allora, era bastata una dichiarazione del governatore della Federal Reserve, Ben Bernanke, sull’avvio della riduzione degli acquisti di assets entro l’anno a scatenare le vendite sul mercato obbligazionario. Stavolta, nessun annuncio è arrivato ad oggi in tal senso. Anzi, la FED mostra di voler tenere i tassi invariati almeno fino al 2023. Eppure, il Treasury a 10 anni quest’anno è salito dallo 0,90% a un massimo dell’1,55% di ieri, salvo scendere in area 1,47% nel corso della seduta.
E’ successo che gli investitori hanno iniziato a liberarsi dei bond al primo cenno di reflazione. Poiché l’indice dei prezzi era diminuito o salito un po’ ovunque di poco con la pandemia, i rendimenti nominali delle obbligazioni sovrane e corporate erano crollati lungo la curva, per cui i relativi prezzi erano esplosi ai massimi storici in moltissimi casi. Con il ritorno dell’inflazione, a finire maggiormente nel mirino del mercato sono stati i titoli a più lunga scadenza, specie quelli con basse cedole e, inevitabilmente, alta “duration”.
La ragione è semplice. Più un bond è lungo e offre un tasso d’interesse basso e maggiore la sua volatilità rispetto al rendimento. Nelle fasi in cui questo sale, le perdite tendono ad essere piuttosto ampie. In previsione di un simile scenario, molti investitori si stanno già sbarazzando dei bond ultra-lunghi, dando vita a un vero e proprio bagno di sangue ai danni di chi è rimasto con il cerino in mano. E saremmo solamente agli inizi del trend, a meno che l’inflazione nei prossimi mesi si mostri più bassa delle attese e/o che le banche centrali intervengano a sostegno dei bond.
In forte calo tutti i bond ultra-lunghi
A lasciarci le penne sono stati, dicevamo, i bond più longevi. Esempio lampante l’Austria: la scadenza 20 settembre 2117 e cedola 2,10% (ISIN: AT0000A1XML2) ha ceduto il 26% dall’11 dicembre scorso, scendendo a una quotazione di poco superiore a 173. Offre ancora un rendimento bassissimo, dello 0,77% questo giovedì, ma più che doppio rispetto al minimo storico in area 0,30% toccato a dicembre. L’altro bond a 100 anni di Vienna, scadenza 30 giugno 2120 e cedola 0,85% (ISIN: AT0000A2HLC4) è sceso sotto la pari per la prima volta da quando viene trattato sul mercato secondario e a 98 centesimi, perdendo il 29,4% in due mesi e mezzo.
Male anche l’Oat a 50 anni della Francia, emesso solamente poche settimane fa e in negoziazione da inizio febbraio. La scadenza maggio 2072 e cedola 0,50% (ISIN: FR0014001NN8) è crollata del 14% in meno di un mese, salendo a un rendimento dello 0,93-4%, a fronte dello 0,535% di inizio mese.
Non poteva andare bene neppure al BTp 2067 e cedola 2,8% (ISIN: IT0005217390), che rivede avvicinarsi la soglia del 2%. Dall’11 febbraio ha perso quasi l’8%, tutto sommato performando meglio dei suoi concorrenti europei, vuoi per la più alta cedola iniziale (e più bassa “duration”), vuoi anche per il migliore appeal del mercato sovrano italiano con l’insediamento a Palazzo Chigi di Mario Draghi. Rimanendo in tema di ultra-lunghi, abbiamo il bond messicano in euro con scadenza 2115 e cedola 4% (ISIN: XS1218289103), che ha ripiegato del 5,7% in due settimane. E’ la dura legge della “duration”. Gli investitori l’hanno ignorata per fin troppo tempo e adesso sembrano caduti dalle nuvole.
L’Italia di Draghi emetterà BTp a 100 anni?