Ieri, il Tesoro ha raccolto 9,25 miliardi con tre BTp a 3, 7 e 30 anni. Su quest’ultima scadenza, ha collocato sul mercato 1,75 miliardi, registrando ordini per 2,27 miliardi. Il rapporto di copertura è stato di 1,30. Insomma, domanda non esattamente esaltante e, in effetti, il rendimento lordo esitato è stato in forte rialzo: dall’1,47% dell’asta precedente al 2,06%. Il prezzo di collocamento è stato di 92,11 centesimi, ben al di sotto della pari. A dire il vero, è risultato nettamente inferiore della quotazione di chiusura di mercoledì, che era di 92,81 centesimi.
Il BTp a 30 anni ha scadenza 1 settembre 2051 e cedola 1,7% (ISIN: IT0005425233). Dall’apice toccato l’11 febbraio scorso, in coincidenza con l’ingresso di Mario Draghi a Palazzo Chigi, perde oltre il 14%. Allora, la quotazione era lievitata a 107,45. A causa dell’elevata “duration”, il titolo ha risentito duramente del rialzo dei rendimenti sul mercato di questi mesi. La reflazione in corso, in misura meno marcata in Italia, spinge gli investitori a richiedere rendimenti nominali maggiori.
E parlando di BTp a 30 anni, abbiamo da pochi giorni anche il nuovo bond in dollari con scadenza 6 maggio 2051 e cedola 3,875% (ISIN: US465410CC03). Dal suo debutto di una decina di giorni fa sul mercato secondario, perde il 2%. La sua quotazione ieri era di 98,28 centesimi, pari a un rendimento lordo del 4%. Possiamo affermare, quindi, che tra il BTp a 30 anni in euro e l’omologo in dollari vi sia uno spread di poco inferiore ai 200 punti base. All’atto del collocamento del bond in dollari, tuttavia, il differenziale risultava di 208 punti. Infatti, esso offriva il 3,94% contro l’1,86% del titolo in euro.
Il restringimento di 14 punti base in un paio di settimane capta il relativo maggiore rialzo dei rendimenti in euro rispetto a quelli offerti dal mercato americano.