Se passerà la riforma pensioni proposta dal governo, sarà iniqua e ingiusta. Non tutti i lavoratori beneficeranno, infatti, degli effetti di quota 102 e poi 104 a partire dal prossimo anno.
Per evitare lo scalone di 5 anni con la riforma Fornero (in pensione a 67 anni) dopo la fine di quota 100, il premier Draghi propone un sistema a quote basato su un allungamento dell’età pensionabile a 64 anni dal 2022 e 66 anni dal 2024.
La riforma pensioni penalizza i nati negli anni 60
Al di là della bontà o meno della riforma pensioni proposta dal governo, il sistema delle quote è impopolare perché penalizza una intera classe di lavoratori.
Questi lavoratori, con quota 102, non riuscirebbero a rispettare i requisiti anagrafici e contributivi previsti entro il 2024. Cioè 64 anni di età e almeno 38 di contributi. Per fare un esempio, un lavoratore nato nel 1961, maturerebbe i 64 anni solo nel 2025.
Ma nel 2025, secondo la riforma proposta da Draghi, serviranno 66 anni per andare in pensione (quota 104, dal 2024 al 2026). E così il lavoratore dovrà attendere che passino altri due anni per andare in pensione, cioè nel 2027. Quando i requisiti anagrafici coincideranno con quelli previsti dalle regole Fornero.
In questo senso i lavoratori nati negli anni 60 sono destinati a pagare il conto di una riforma che è già stata osteggiata da Lega e sindacati. Ai nati negli anni 60 potrebbe quindi accadere, per effetto trascinamento previsto dalle quote progressive, quello che è accaduto ai nati nel 1953 dopo la riforma Fornero.
Uno scivolo nascosto verso la Fornero
I meno penalizzati, al contrario, saranno i lavoratori nati negli anni 58 e 59. Costoro, se non sono riusciti ad andare in pensione con quota 100 (che scade nel 2021) potranno farlo nel 2022 e 2023. Posto che ci sia il requisito contributivo, quello anagrafico sarebbe rispettato naturalmente con quota 102.
La riforma, nel complesso, è comunque inutile perché – secondo le previsioni – consente solo a poche migliaia di lavoratori di andare in pensione prima della vecchiaia.