Lo abbiamo definito “effetto Draghi” per descrivere l’impatto positivo che sin da prima del suo insediamento ufficiale a Palazzo Chigi ha avuto il nostro premier sui mercati finanziari. Lo spread a 10 anni tra BTp e Bund arrivò a scendere fin sotto 90 punti base, salvo assestarsi stabilmente attorno a 100. E dire che proprio l’assunzione della guida del governo abbia coinciso con una drastica risalita dei rendimenti sovrani e corporate in tutto il mondo per via della reflazione. In un contesto monetario che si attende meno accomodante, lo spread dovrebbe divaricarsi, scontando maggiori rischi a carico del debito pubblico italiano.
Invece, questo non è accaduto, almeno fino a questi giorni, quando è risalito in area 120 punti. Merito dell’ottimismo che sui mercati si respira riguardo all’andamento dell’economia italiana, che primeggia nelle previsioni di crescita per quest’anno con uno straordinario +6%. Certo, arriva dopo un drammatico -8,9%, ma un rimbalzo così forte non era affatto certo. E in ciò Draghi ha avuto la sua parte, agendo sulle aspettative di imprese e consumatori e implementando con successo il piano vaccinale. Ad oggi, siamo il Paese meglio messo in Europa, se non tra i grandi del mondo, per contagi e morti da Covid.
Ma chi pensa che lo spread sia roba del passato, ahinoi potrebbe ricredersi tra pochissimi mesi. In queste ultime settimane, prima con le elezioni amministrative e dopo su pensioni e caso MPS, si vocifera che il premier Draghi sia piuttosto rammaricato di come stiano andando le cose nel governo. Deluso dai ministri tecnici e arrabbiato con gli esponenti politici della sua maggioranza, avrebbe persino preso in considerazione l’ipotesi delle dimissioni. Obiettivamente, ci sembra una ricostruzione forzata e iperbolica. Tuttavia, che Draghi si sia un po’ rotto dei meccanismi della politica non è del tutto sbagliato.
Spread con tensioni politiche
Egli vorrebbe agire più in fretta su Recovery Fund e agenda delle riforme, ma si vede frenato dalla burocrazia da un lato e dai veti incrociati tra i partiti dall’altro.
Ma nessuno può mettere la mano sul fuoco che finirà così. Nella storia repubblicana, è accaduto sempre che chi sia entrato in conclave da Papa ne sia uscito cardinale. Sarà così anche stavolta o il mutato clima nel nome dell’emergenza pandemica farà sì che Draghi sia eletto davvero presidente della Repubblica? Se per una qualche ragione non dovesse andare bene, vuoi anche per la rinuncia dello stesso premier a correre per il Colle, la faticosissima “pax” politica raggiunta in questi mesi salterebbe in aria nel giro di un attimo. Anzitutto, perché con ogni probabilità l’elezione del nuovo presidente vedrebbe almeno uno o più partiti della maggioranza uscire sconfitti, anche solo sul piano dell’immagine, attizzando tensioni. Peraltro, ciò avverrebbe con una BCE intenta ad uscire dai maxi-stimoli monetari.
E anche ammettendo che il successore di Mattarella sia eletto in un clima di concordia nazionale, di fatto partirebbe da lì la campagna elettorale per le elezioni nel 2023. Non ci sarebbero più remore nel contenere proclami di parte. La figura di Draghi, su cui vi è stata convergenza assoluta ad oggi nella prospettiva di un suo “upgrade” alla presidenza della Repubblica, non sarebbe più percepita di equilibrio tra le forze in campo. Le tensioni politiche sfocerebbero in una paralisi istituzionale e legislativa, a sua volta con riflessi sui mercati.