Dopo quota 100, si torna alla legge Fornero più in fretta di quanto ci si potesse immaginare. Il governo Draghi ha concesso alla Lega quota 102, ovvero la possibilità per i lavoratori di andare in pensione con 64 anni di età e 38 di contributi per il solo 2022. I sindacati, che avevano minacciato fuoco e fiamme sulle pensioni, si leccano le ferite e sono costretti ad annunciare una ridicola “mobilitazione” al posto dello sciopero generale.
La sconfitta di CGIL, CISL e UIL è sotto gli occhi di tutti.
La perdita di credibilità e forza dei sindacati non è di oggi. Inizia negli anni Ottanta con la famosa “Marcia dei 40.000”, una contromanifestazione tenuta allora da quadri e dirigenti Fiat per dire basta all’arroganza di organizzazioni che tenevano sotto scacco le aziende. Con l’arrivo degli anni Novanta, i sindacati sparano ancora gli ultimi colpi contro l’allora governo Berlusconi sulla riforma delle pensioni, salvo concordarne una ben più netta e rivoluzionaria pochi mesi dopo con il governo Dini. Fu la fine conclamata della loro autorevolezza: i diritti dei lavoratori venivano barattati per questioni di partito.
Le origini della crisi sindacale
Qualche anno prima, a dire il vero, vi era stato il patto con il governo Ciampi per giungere a una “moderazione salariale” auspicata da più parti per frenare definitivamente l’inflazione e consentire all’Italia di entrare nell’euro. Dovrebbe avere funzionato, se è vero che dal 1999 al 2020, siamo stati insieme alla Spagna la Nazione europea che ha visto ridotti i salari, anziché crescere. Nel frattempo, in Germania e Francia risultano essere cresciuti in termini reali di oltre il 15%.
Grande mobilitazione contro la legge Biagi nel 2003, proposta dal secondo governo Berlusconi, ultimo successo ottenuto da sindacati ormai sconnessi dalla realtà. Arriviamo al 2011 e quando la legge Fornero fu introdotta senza neppure una discussione in Parlamento, nessuno tra CGIL, CISL e UIL batté ciglio. Né vi fu alcuna reazione vigorosa al Jobs Act del governo Renzi. Non si capisce perché Draghi avrebbe dovuto concedere loro quello che i suoi predecessori ebbero concesso senza resistenze apprezzabili.
La morte dei sindacati è nei fatti. Hanno consegnato ai lavoratori italiani gli stipendi più bassi dell’Europa occidentale, l’età pensionabile ufficiale più alta, le scappatoie per uscire dal lavoro più inique per donne e operai, nonché tra i più bassi tassi di occupazione nell’intera area OCSE. Solamente colpa loro? No di certo. Queste criticità sono frutto di una stagnazione praticamente trentennale dell’economia italiana. Vuoi per la fine della leva fiscale quale impulso per consumi e investimenti, vuoi anche per l’impossibilità di sfruttare le svalutazioni competitive per restare a galla, l’Italia è reduce da una transizione dagli effetti “raggelanti” per il proprio PIL.
Sconfitta definitiva sulle pensioni
Detto questo, cattivi sindacati hanno creato un cattivo mercato del lavoro e, di riflesso, una cattiva economia. Abbiamo oltre una quarantina di tipologie contrattuali e una contrattazione centralizzata, che producono contemporaneamente precarietà e inefficienze nei processi di formazione dei salari: tanti contratti a tempo, tante soluzioni escogitate dalle imprese negli anni per scampare alle assunzioni a tempo indeterminato – gli ex co.co.co ci hanno trasformato in un pollaio del diritto del lavoro – a fronte di aumenti modesti dei salari per tutti, indipendentemente dall’andamento dinamico di ciascun settore.
Con la sconfitta sulle pensioni, CGIL-CISL-UIL hanno confermato la loro irrilevanza sul piano sociale.