Trent’anni sono pochi per pensare alla pensione?

Pensioni, tra lavoro precario e poche certezze: è troppo presto - o troppo tardi - iniziare a investire su un fondo pensione a 30 anni?
3 anni fa
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Precari, sottopagati, finte p. Iva e contratti spesso privi di tutele, specie dal punto di vista previdenziale: questo è il ritratto di un’intera generazione, per cui la pensione oggi sembra essere sempre più spesso un miraggio. Luogo comune o poca fiducia nel futuro? Se le incertezze sono tante e le sicurezze poche, verrebbe da chiedersi quando, come e se sia il caso di iniziare a pensare – seriamente – al momento in cui andremo in pensione. A 30 anni è ancora troppo presto pensarci o siamo già in ritardo?

Pensioni, a 30 anni è già troppo tardi o troppo presto per iniziare a pensarci?

Quando è il momento giusto per iniziare a pensare a investire su un fondo pensionistico? Trent’anni sono pochi per pensare alla pensione? Ma soprattutto, c’è un’età limite?

Secondo gli esperti, non è mai troppo tardi né troppo presto.

Tuttavia, per quanto una persona si sforzi di essere ottimista, bisogna ammettere che più si va avanti con l’età più diventa difficile raggiungere, di fatto, i requisiti richiesti per il riconoscimento della pensione minima e/o di vecchiaia.

La buona notizia è che a 30 anni, una persona ha ancora tanti anni davanti a sé e, in teoria (ma anche in pratica), non gli risulterà impossibile raggiungere la contribuzione minima e l’età richiesta – ad oggi – a chi desidera andare in pensione.

Escludendo tutti i casi speciali di uscita dal lavoro (pensione anticipata, pensione di invalidità etc.), in Italia, al momento, per richiedere e ottenere l’assegno pensionistico servono:

  • 42 anni e 10 mesi di contribuzione per gli uomini e 41 e 10 mesi per le donne, nel caso della pensione anticipata;
  • oppure 67 anni d’età e 20 di contributi, nel caso della pensione di vecchiaia.

Tra lavoro precario e poche certezze

Viste le condizioni in cui si trova il mondo del lavoro oggi in Italia, 20 anni di contributi versati in maniera continuativa può però sembrare a molti un miraggio.

Tra lavori precari e in nero, non è così scontato che tutti i giovani lavoratori di oggi riescano a raggiungere questa soglia minima in futuro. Quindi, che fare?

Per stare più tranquilli, potrebbe essere una buona idea quella di istituire un fondo pensione, una sorta di assicurazione finalizzata a rendere più sostenibile l’uscita dal lavoro in futuro. Spesso anche varie compagnie private offrono soluzioni che, nel lungo termine, accompagnano poi il contribuente dopo che ha smesso di lavorare. Ce ne sono di diversi tipi, stipulabili con enti pubblici o privati, con soluzioni che possono variare a seconda delle esigenze e delle disponibilità di chi si rivolge alla cd. “previdenza complementare“.

Fondi pensione e previdenza complementare, alternative alla pensione di vecchiaia?

La previdenza complementare, disciplinata dal D.lgs. 5 dicembre 2005 n. 252, rappresenta il secondo pilastro del sistema pensionistico, cui scopo è quello di integrare la previdenza di base obbligatoria o, appunto, cd.  “di primo pilastro”. Essa ha come obiettivo quello di concorrere ad assicurare al lavoratore, per il futuro, un livello adeguato di tutela pensionistica, insieme alle prestazioni garantite dal sistema pubblico di base.

È basata su un sistema di forme pensionistiche incaricate di raccogliere il risparmio previdenziale mediante il quale, al termine della vita lavorativa, si potrà beneficiare di una pensione integrativa.

Sono forme pensionistiche complementari:

  • i fondi chiusi (art. 3 del D.lgs. 252/2005) di origine “negoziale”, forme pensionistiche complementari istituite dai rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro nell’ambito della contrattazione nazionale, di settore o aziendale;
  • i fondi aperti (art. 12 del D.lgs. 252/2005), ovvero forme pensionistiche complementari istituite da banche, imprese di assicurazioni, società di gestione del risparmio (SGR) e società di intermediazione mobiliare (SIM);
  • i Piani pensionistici individuali (PIP) (art. 13 del D.Lgs. 252/2005), che rappresentano i contratti di assicurazione sulla vita con finalità previdenziale. Le regole che li disciplinano non dipendono solo dalla polizza assicurativa ma anche da un regolamento basato sulle direttive della COVIP. Lo scopo è garantire all’utente gli stessi diritti e prerogative analoghi alle forme pensionistiche complementari.

A questi si vanno ad aggiungere i fondi pensione preesistenti all’istituzione della previdenza complementare.

Questi fondi hanno caratteristiche proprie che li distinguono dai fondi istituiti successivamente. Possono, ad esempio, gestire direttamente le risorse senza ricorrere a intermediari specializzati. Si tratta per lo più di Fondi collettivi per i quali l’adesione dipende da accordi o contratti aziendali o interaziendali.

Chi ha accesso ai fondi pensione e alla previdenza complementare

In ogni caso, il finanziamento delle forme pensionistiche complementari è a carico del lavoratore destinatario della prestazione e, in caso di rapporto di lavoro dipendente, in parte anche a carico del datore di lavoro. Inoltre, i lavoratori dipendenti possono decidere di integrare i versamenti contributivi anche mediante il conferimento al Fondo del trattamento di fine rapporto (TFR).

Al momento del pensionamento all’iscritto sarà liquidata una rendita aggiuntiva alla pensione costituita dai contributi versati, comprensiva dei risultati di gestione ma, a determinate condizioni, è possibile anche percepire in capitale (in tutto o in parte) la prestazione maturata, a prescindere che ci sia una pensione erogata da un ente pubblico.

tutti possono aderire volontariamente a una forma pensionistica complementare per costruirsi una rendita pensionistica. La previdenza complementare, infatti, interessa i dipendenti pubblici e privati, i lavoratori autonomi, i liberi professionisti, i soci di cooperative, i cittadini titolari di redditi diversi da quelli da lavoro e i familiari a carico dei lavoratori.

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