“Il suo divano le arriverà non prima di un mese”, “la cucina sarà in consegna almeno tra 2-3 mesi”, “purtroppo, l’armadio non è in magazzino e sui tempi di arrivo non possiamo darle certezze”. Sono tra le frasi che spopolano in questi mesi nei negozi di tutto il mondo e che, diciamocelo francamente, non eravamo abituati neppure a immaginare. E poi c’è quell’inflazione che sta divorando il potere d’acquisto. A leggere che sia salita al 3,8% in Italia a novembre, tutto sommato sembrerebbe poca roba.
Il rialzo scatenato dei prezzi è perlopiù conseguenza della carenza di beni disponibili. A sua volta, essa deriva dall’interruzione delle catene di produzione per via delle restrizioni contro la pandemia. Abbiamo scoperto in maniera pratica cosa significhi nel concreto far saltare le linee di produzione in una qualsiasi parte del pianeta. Tutto è interconnesso. Se uno stabilimento a Taiwan rallenta la produzione di chip, in Cina non è possibile completare l’assemblaggio di un cellulare e in Italia rimaniamo a corto di smartphone. E così di seguito.
La generazione degli under 40, forse anche under 50, non era più abituata a due fenomeni: all’alta inflazione e alla carenza di beni. La globalizzazione degli ultimi decenni aveva massimizzato i benefici del capitalismo per i consumatori: tutto era disponibile subito e a basso costo. Nell’era di Amazon, siamo mentalmente formattati per pensare che il corriere debba suonare il campanello di casa dopo qualche ora dal clic con cui abbiamo effettuato un ordine online. Si è scatenata una corsa tra i colossi per garantire tempi di consegna velocissimi, in modo da rimpiazzare gli acquisti nei negozi fisici con quelli su internet senza farci pesare troppo che le operazioni non avvengano esattamente in tempo reale.
L’impatto della globalizzazione sull’inflazione
La globalizzazione è stata ad oggi un’immensa vetrina alla quale guardare per comprare tutto ciò che desideriamo ai prezzi più bassi possibili. Con la pandemia, queste certezze stanno venendo meno. Chi vuole comprare beni non di primissima necessità, deve aspettare e mettere in conto prezzi non più così infimi. La velocità non è un elemento secondario del capitalismo. La sua vittoria sul comunismo si ebbe anche grazie ad essa. Nelle economie pianificate dell’Est Europa, le merci non erano mai prontamente disponibili. Dopo qualche ora di fila, si tornava spessissimo a casa con una busta di latte, ma non con il paio di calzini nuovi di cui si aveva bisogno. Chi nella e DDR prenotava una Trabant, poteva doverne attendere la consegna fino a dieci anni. E si scoprì persino che la carrozzeria era di cartone pressato.
Quantità, qualità, velocità e bassi costi sono stati la supremazia senza pari del capitalismo e massimizzata dalla globalizzazione. Certo, vero è anche che saremmo nel bel mezzo di un fenomeno passeggero, così come teoricamente lo sarebbe pure l’inflazione, almeno a detta dei banchieri centrali. E se dopo la pandemia ci attendesse una deglobalizzazione strisciante? Catene di produzione più corte per reagire meglio a futuri imprevisti come il Covid (ma anche guerre, disastri naturali, tensioni geopolitiche, ecc.) eliminerebbero apparentemente il problema della lentezza nell’accaparramento delle merci, ma ne farebbero sorgere un’altro legato ai costi. Produrre tutto in Europa, ad esempio, farebbe schizzare i prezzi finali dei beni.
D’altra parte, non esiste una regione del mondo del tutto potenzialmente autonoma: le terre rare ci sono in Cina e Sud America, non in Europa. Questo richiede il mantenimento dei legami commerciali tra le varie aree del pianeta, altrimenti le catene di produzione rischiano di saltare per sempre e la carenza di beni, associata all’alta inflazione, rimarrebbe un fenomeno strutturale.