Le pensioni crescono più degli stipendi. Questo è ormai un fatto noto e poco rassicurante che mette su due piani diversi lavoratori e pensionati. I secondi sono più garantiti dei primi.
Succede perché le pensioni, garantite dallo Stato, sono rivalutate ogni anno in base all’andamento dell’inflazione. Cosa che accade anche per gli stipendi, ma che avviene a distanza di tempo e con cadenza non annuale.
Le pensioni aumentano prima degli stipendi
Per gli stipendi, infatti, bisogna sempre attendere i tempi della concertazione prima che i contratti siano rinnovati.
Se poi a ciò si aggiungono anche i blocchi delle rivalutazioni contrattuali intervenuti in passato, il gap con le pensioni si allarga. Insomma, se per le rendite di Stato la rivalutazione scatta il 1 gennaio di ogni anno, per le retribuzioni bisogna aspettare anche 3-4 anni.
Si arriva così a rivalutare gli stipendi dopo molto tempo rispetto all’incremento dell’inflazione. Il che porta a una perdita di potere di acquisto superiore a quella calcolata se lo stipendio fosse rivalutato subito.
Il danno per le nuove generazioni
Detto questo, il danno che ne deriva per le nuove generazioni è più alto rispetto a quelle vecchie. I lavoratori che andranno in pensione con il sistema di calcolo contributivo puro percepiranno una rendita decisamente più bassa rispetto ai predecessori.
Tecnicamente parlando, il tasso di sostituzione è previsto intorno al 50-55 per cento della retribuzione media percepita. Una percentuale che si contrappone nettamente con quella alla quale siamo abituati a confrontarci oggi per chi va in pensione con il sistema di calcolo misto.
Il tasso di sostituzione è del 75-80%, di poco inferiore a quello dell’ultimo stipendio. In alcuni casi, la rendita è addirittura uguale all’ultima retribuzione.
Vuole dire che la pensione si sostituisce allo stipendio che viene rivalutato subito e il beneficiario non perde il suo potere d’acquisto. Per i giovani lavoratori, la cui pensione sarà la metà dello stipendio, sarà invece una beffa.