L’Italia ha chiuso il bilancio dello stato nel 2021 con una spesa per interessi sul debito pubblico pari a 60,5 miliardi di euro, il 3,4% del PIL. Per quest’anno, il governo Draghi aveva previsto nella Nota di aggiornamento al Def dell’autunno scorso una spesa in calo a 55 miliardi e pari al 2,9% del PIL. Per il prossimo biennio, la stima era sempre calante: 53,3 miliardi e 2,7% e 51,1 miliardi e 2,5%.
In queste previsioni, il governo aveva certamente scontato il rialzo dei tassi di mercato dopo anni in cui hanno viaggiato ai minimi storici e negativi fino alle medio-lunghe scadenze.
Il rendimento del BTp a 7 anni sfiora ormai il 2%. Fino a pochi mesi fa, questo era il costo sostenuto dal Tesoro per emettere debito pubblico a 50 anni. Perché è importante il riferimento alla scadenza settennale? Essa tende a fornirci un’idea approssimativa del costo medio ponderato di tutti i titoli di stato emessi, in quanto la loro scadenza residua media è proprio di poco superiore ai 7 anni.
Rialzo dei tassi e impatto sul deficit
A questo punto, dobbiamo introdurre il concetto di tasso implicito, che altro non è che il rapporto tra la spesa per interessi e il debito pubblico? Nel 2021, fu del 2,3%. Stando ai dati sopra citati, per quest’anno è atteso in calo al 2%, nel 2023 all’1,9% e nel 2024 all’1,7%. Tuttavia, queste previsioni iniziano a cozzare con la realtà. A cos’è stato dovuto il calo del tasso implicito e, di riflesso, della spesa per interessi nell’ultimo decennio? Al fatto che il Tesoro ha potuto emettere nuovo debito a tassi inferiori a quelli medi vigenti per il debito passato.
Se, come vi abbiamo appena spiegato, il rendimento medio dei BTp è salito al 2%, nei fatti si restringe il margine che ci rimane per continuare ad emettere debito a costi più bassi del passato. Anzi, rischiamo da qui a breve di indebitarci a costi più alti, per cui la spesa per interessi tornerebbe a salire, anziché proseguire la discesa. Ciò ridurrebbe gli spazi di manovra fiscale dell’esecutivo, perché a parità di deficit fissato, il saldo primario dovrebbe migliorare più velocemente per compensare la maggiore spesa per gli interessi.
Ripetiamo, era tutto previsto, ma non così velocemente. C’è da dire che l’inflazione si sta rivelando croce e delizia dei governi europei. Fintantoché essa non intacchi il tasso di crescita del PIL o lo faccia in misura contenuta, finisce per aumentare il PIL nominale e per migliorare i conti pubblici. Tuttavia, essa al contempo sta innalzando i rendimenti nominali richiesti dal mercato per acquistare titoli di stato. E in queste dimensioni (al 7-8% in Europa e Nord America) sta mandando le economie in recessione, abbattendo consumi e produzione. Pertanto, dà una mano per fare quadrare i bilanci, ma allo stesso tempo crea le condizioni per sfasciarli.