Quello che sta per concludersi non è stato per Cuba solo il primo mese del nuovo anno, ma anche di una nuova era. Il comunismo come lo avevano conosciuto negli ultimi decenni è stato stravolto. Dall’1 gennaio, il governo del presidente Miguel Diaz-Canel ha soppresso il peso convertibile o CUC, lasciando in circolazione solamente il CUP o peso cubano. Il primo potrà essere convertito contro il secondo a un rapporto di 1:24. Questo significa che nei fatti il cambio è stato svalutato di circa il 96%, visto che fino al 31 dicembre scorso un CUC si scambiava contro 1 dollaro e anche contro 1 CUP per le società controllate dallo stato.
Per cercare di compensare i cittadini del previsto boom dei prezzi, il governo ha quintuplicato stipendi pubblici, pensioni e sussidi. Il settore privato subirà più duramente le conseguenze della maxi-svalutazione, visto che gli stipendi non verranno adeguati nell’immediato, ma verosimilmente dopo che i lavoratori-consumatori avranno accusato il colpo.
La riforma monetaria si è resa necessaria per eliminare alcune evidenti distorsioni macro, come una formazione dei prezzi a favore di alcuni prodotti contro altri, eccesso di importazioni, bassa produzione locale e scarso incentivo al lavoro. Il problema è che sarebbe solo il primo passo di una riforma ancora più ampia, stando ai creditori riuniti nel cosiddetto Club di Parigi. Essi ritengono che il cambio contro il dollaro dovrebbe essere svalutato fino a 40-50, cioè di circa un altro 50% rispetto ai livelli attuali. Quello sarebbe il valore di equilibrio, che consentirebbe all’economia cubana, unitamente ad altre riforme economiche “market friendly” di tornare a crescere e svilupparsi.
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Ma il governo sa che non può permettersi di compiere un simile passo, almeno non per il momento. Già rischia di alimentare il malcontento, tra prezzi al consumo esplosi e taglio di alcuni sussidi per sgravare il bilancio statale.
Il fenomeno è tristemente noto al Venezuela, che ha visto collassare la propria economia negli ultimi anni insieme alle quotazioni del petrolio, guarda caso per l’ostinazione del regime “chavista” di Caracas di tenere il cambio fisso contro il dollaro e a livelli mostruosamente forti. Ancora oggi, il paese andino rifornisce L’Avana di carburante quasi gratuitamente, ma con il crollo delle estrazioni di greggio, le future consegne appaiono tutt’altro che scontate. Se venissero tagliate o del tutto azzerate, l’isola si ritroverebbe a dover comprare greggio ai prezzi di mercato da altri produttori, aumentando i costi d’importazione e, di riflesso, ancora una volta i prezzi al consumo. Una miscela esplosiva, che solo un’inversione a U immediata della politica estera americana con annesso ritiro delle sanzioni contro Cuba e/o Venezuela e il miglioramento dell’economia globale con la ripresa del turismo internazionale eviterebbero o almeno conterrebbero. Entrambi gli scenari appaiono poco probabili.
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