Lega e Movimento 5 Stelle sarebbero d’accordo: bisogna abolire il valore legale del titolo di studio. Se volessero, i numeri in Parlamento li avrebbero, non solo perché insieme hanno la maggioranza dei seggi, ma anche perché la proposta sarebbe appoggiata, salvo ripensamento tattico dell’ultimo minuto, da formazioni come Forza Italia e Fratelli d’Italia, visto che sta nel programma del centro-destra da decenni, sebbene non si sia mai passati seriamente dalle parole ai fatti. Di che cosa stiamo parlando esattamente? Il titolo di studio in Italia costituisce requisito necessario per accedere ai concorsi pubblici e il voto di laurea risulta spesso determinante per l’assegnazione del punteggio al candidato, di fatto consentendogli di scalare o meno la graduatoria.
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Se si abolisse il valore legale del titolo di studio, la partecipazione ai concorsi pubblici non verrebbe più determinata dal possesso o meno di un diploma di maturità o una laurea, né il voto influenzerebbe la classifica per il posizionamento dei candidati in graduatoria. E perché dovremmo mai tendere a un siffatto modello? Paradossale che sembri, proprio per assegnare maggiore valore al titolo di studio e non al classico “pezzo di carta”.
Oggi, il titolo in sé certifica le competenze del candidato, anche se sappiamo che molto spesso è un pezzo di carta astratto, che poco o niente serve nel mondo del lavoro per la specifica posizione alla quale ci si candida. Assegnandogli un valore legale, il candidato magari riesce a vincere un concorso, perché ottiene un punteggio superiore ad altri sulla base del semplice possesso, senza che questo in sé voglia dire qualcosa in merito alle sue capacità e alle sue competenze. Se abolissimo il valore legale del titolo di studio, i candidati sarebbero posti tutti sullo stesso piano, ovvero la vera lotta in un concorso pubblico avverrebbe sul piano delle competenze e non del pezzo di carta in tasca.
Cambio di mentalità tra famiglie e società
Lo stesso discorso vi sarebbe per il voto di maturità e della laurea: sappiamo tutti che in alcune facoltà e in alcuni atenei è più semplice ottenere anche il massimo della valutazione, mentre in altri è più difficile. Eppure, formalmente il candidato che è uscito da una facoltà con 110/110 godrà di un punteggio superiore a chi, magari avendo studiato di più e pur essendo stato più preparato e ligio al dovere nel suo percorso di studi, ha frequentato una facoltà o un ateneo più severi e ha riportato un voto finale anche solo leggermente più basso. Eliminare il valore legale del titolo di studio automaticamente porrebbe fine a queste ingiuste discriminazioni ai danni di candidati preparati e che hanno avuto il solo torto di essersi iscritti a un corso più severo e con docenti meno accomodanti. E anche all’interno della stessa facoltà e dello stesso corso di studio, si consideri che spesse volte il voto finale tra studente e studente muta sulla base di una serie di variabili che poco o nulla hanno a che fare con la sua effettiva preparazione.
Il beneficio dell’abolizione del valore legale del titolo di studio, tuttavia, avverrebbe negli anni a monte, non solo a valle. Fin qui, ci siamo concentrati sulle conseguenze al termine degli studi, quando il famoso pezzo di carta diventa spendibile per “prendere un posto”. In realtà, la vera rivoluzione vi sarebbe già all’atto dell’iscrizione a un istituto di secondo grado e a un corso di laurea. Ad oggi, poiché l’importante è solo mettersi in tasca un titolo, meglio se con il massimo dei voti, i genitori degli studenti sono incentivati dopo la scuola dell’obbligo a iscrivere i figli in scuole “facili”, dove i docenti sono di manica larga nel dare i voti e con scarse pretese.
Tra istituti e atenei pubblici e privati s’innescherebbe un meccanismo concorrenziale automatico, in quanto gli studenti avrebbero come unico obiettivo di iscriversi a un corso/istituto per ricavarne il massimo della preparazione e apprendere competenze. Uscire dal liceo o dall’università anche con il massimo dei voti, ma privi di conoscenze, non servirebbe più a nulla. Ciascun istituto di qualsiasi ordine e grado avrebbe così la necessità di attirare iscritti sulla base della qualità offerta, non della facilità nella promozione e nella concessione di voti alti.
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Rischi e resistenze
Certo, ci sarebbe qualche effetto collaterale di cui non si potrebbe non tenere conto. Per quanto appena detto, specie nel panorama universitario si creerebbero atenei di serie A e atenei di serie B, forse anche C. E il rischio consiste nell’ampliare il solco socio-economico che già separa nord e sud in Italia, visto che le classifiche internazionali collocano generalmente gli atenei settentrionali in posizioni molto migliori di quelli meridionali sul fronte della preparazione e della qualità dei servizi offerti. E una cosa sarebbe per uno studente scegliere la scuola che ritiene migliore nel suo quartiere, un’altra dover prendere atto che magari non vi sarebbe nella sua città o nella sua regione una facoltà di livello per il corso di studio che vorrebbe frequentare. A quel punto, solo i figli delle famiglie più benestanti potrebbero permettersi realmente di iscriversi nelle facoltà migliori, per cui gli studenti meno fortunati sarebbero costretti a frequentare gli atenei qualitativamente più scarsi. In sede di concorso, questi ultimi verrebbero penalizzati, nel caso in cui fosse introdotto un sistema di punteggio differenziato sulla base dell’ateneo in cui ci si è laureati.
Altro rischio consiste in una valutazione più discrezionale dei candidati che partecipano a un concorso pubblico. Eliminando il requisito oggettivo del titolo di studio, a rilevare sarebbero la competenze effettive. Sì, ma siamo sicuri che i docenti nominati dal ministero per giudicarle siano obiettivi e non influenzabili da possibili raccomandazioni e casi di corruzione? Vero è, però, che il fenomeno esiste da sempre, tant’è che negli ultimi anni abbiamo avuto notizia di concorsi persino annullati per prove evidenti di candidati raccomandati, a cui qualche volta sono stati fatti arrivare in largo anticipo i quesiti a cui sarebbero stati sottoposti per la prova scritta.
Insomma, il modello perfetto non esiste, anche se l’assegnazione di un valore legale al titolo di studio in Italia è stato e continua ad essere la madre di tante inefficienze. Bisogna mettere al centro la preparazione degli studenti, non il loro pezzo di carta. Il cambio di mentalità tra le famiglie per prime e sul piano pubblico in una seconda fase avrebbe come conseguenza più diretta e immediata la tendenza della società a concentrarsi sulla sostanza e non più sulla sola forma. Scuole e facoltà scadenti verrebbero spazzate via, i docenti più preparati e capaci preferiti ai colleghi più sfaticati e per niente brillanti, perché la domanda pretenderebbe un’offerta di qualità, non già di ottenere un titolo a ogni costo e nel minore tempo possibile. La riforma si completerebbe chiaramente assegnando maggiori poteri ai presidi per la scelta del personale docente, perché se non posso mandare a casa un insegnante incompetente, difficile che quella domanda di qualità possa trovare accoglimento. Per questo, le resistenze alla riforma sono ampie nel nostro Paese e si annidano negli ambienti sindacali, che notoriamente prediligono l’uguaglianza nella mediocrità che la differenza a beneficio della qualità.