Non ci sarà alcun rialzo dei tassi d’interesse nel corso di quest’anno. Se ancora ci fossero stati dubbi, ieri li ha dissipati Christine Lagarde, intervistata dalla radio France Inter. Secondo il governatore della BCE, l’inflazione si stabilizzerà nei prossimi mesi per poi scendere. La sua stima è del 3,2% per quest’anno. Considerando che il target sia del 2%, l’istituto dovrebbe affrettarsi ad agire per frenare la crescita dei prezzi. Invece, Lagarde spiega che non esiste alcuna ragione per inseguire la Federal Reserve su questa strada.
Il mercato non aveva neppure prezzato un rialzo dei tassi BCE nel 2022, ma sta di fatto che le parole del governatore lascino pensare. Dinnanzi alla crescita impetuosa dell’inflazione, i consumatori dell’Eurozona saranno abbandonati al loro destino. Le principali banche centrali, chi più e chi meno, si trincera dietro alla definizione di inflazione “transitoria” per mantenere basso il costo del denaro. In verità, esse temono che un suo aumento impatti troppo negativamente sulle valutazioni degli asset finanziari, ponendo fine a oltre un decennio di mercati azionari e obbligazionari in bolla. Secondariamente, puntano a salvare i conti pubblici, dato che i debiti sono esplosi un po’ in tutto il mondo avanzato dalla crisi finanziaria del 2008-’09.
La BCE ha una ragione in più per farlo. Se alzasse i tassi d’interesse, si troverebbe a rivivere una situazione non dissimile da quella del 2011, quando l’allora Jean-Claude Trichet diede vita a una stretta monetaria prematura, finendo per accentuare l’incipiente crisi dei debiti sovrani. Gli spread esplosero in Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia. L’euro fu sull’orlo della scomparsa e venne salvato dal “whatever it takes” del successore Mario Draghi nell’estate del 2012.
Inflazione voluta dalle banche centrali
Ad essere sinceri, non c’è banca centrale che stia soffrendo per l’impennata dell’inflazione. Essa contribuirà a sgonfiare i debiti dei governi – e perché no, anche dei privati – unica alternativa concreta alle politiche di austerità fiscale, la cui impopolarità farebbe stavolta sì implodere la moneta unica. Anziché stangare i contribuenti con aumenti delle tasse o i cittadini-utenti con tagli alla spesa pubblica, torna in scena una delle soluzioni vecchie quanto il mondo: inflazionare l’economia e farne ricadere il peso su titolari di redditi fissi (lavoratori dipendenti) e creditori.
Siamo in piena repressione finanziaria, non da oggi a dire il vero. Già prima della pandemia avevamo imparato a convivere con tassi nominali e reali negativi, per cui di fatto i nostri risparmi sono volutamente erosi da anni. Con la pandemia, questo processo ha solo subito un’accelerazione ed è diventato un obiettivo semi-ufficiale delle banche centrali. Come negli anni Settanta e inizio anni Ottanta, il denaro perde progressivamente valore e impiegarlo in attività finanziarie ordinarie non porta a nulla di positivo. Quelli non furono anni facili per i governi, che pur non avendo (ancora) problemi di debito, si ritrovarono a fronteggiare disordini e scioperi figli delle lotte sindacali contro il carovita. E chissà che i governatori centrali non cerchino anche di rinvigorire il potere negoziale dei sindacati, in scia alle battaglie a tutela dei redditi, al fine di ridurre le disparità crescenti tra i redditi negli stati più ricchi!