Alitalia, il coraggio di non farlo. Toninelli smentisce la nazionalizzazione, ma fregatura dietro l’angolo

Niente nazionalizzazione di Alitalia, spiega il ministro Toninelli. Ma le sue parole non convincono, mentre avanza uno scenario cupo per i contribuenti.
6 anni fa
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Danilo Toninelli, ministro delle Infrastrutture, ha smentito che quel suo riferimento al “51% di Alitalia in capo all’Italia” abbia voluto preludere alla ri-nazionalizzazione della compagnia aerea. Questione chiusa? Per niente. Se il 51% in mani italiane di cui ha parlato il ministro non si riferisce allo stato, chi altri dovrebbe prendere le redini del vettore? In teoria, l’unica risposta valida rimasta sarebbero i privati. Eppure, sono gli stessi ad essersela data a gambe dopo il flop a carico dei contribuenti dei “capitani coraggiosi” di berlusconiana memoria.

Ad oggi, delle tre proposte di acquisto giunte sul tavolo dell’ex ministro dello Sviluppo, Carlo Calenda, nessuna è provenuta da soggetti italiani. Se si fosse ragionato in termini puramente aziendali, dieci anni fa Alitalia sarebbe stata venduta ad Air France-Klm, mentre già da mesi sarebbe in mano ai tedeschi di Lufthansa. A prevalere allora furono considerazioni di geopolitica (la Francia è un nostro concorrente sul mercato dei flussi turistici), a inizio 2018 questioni più squisitamente sociali e a ridosso delle elezioni (Lufthansa pretendeva il taglio di migliaia di posti di lavoro e avrebbe offerto appena 250 milioni per rilevare 90-100 aerei dell’attuale flotta, impegnandosi a investire nella compagnia).

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In assenza di privati connazionali disposti a rilanciare la compagnia con maxi-iniezioni di capitali, non resterebbero che tre soluzioni: trovare investitori stranieri, nazionalizzare Alitalia attraverso qualche stratagemma o lasciare fallire la compagnia. Nel primo caso, il governo avrebbe intenzione di limitarne la quota al 49% del capitale. Stando così le cose, non si vede chi possa investire in una società decotta, in cui a comandare sarebbe qualcun altro per volontà politica. E allora, scartando l’ipotesi del fallimento, che pure sarebbe l’unica davvero convincente in un mondo razionale e non caratterizzato da consenso spicciolo, l’unica soluzione resterebbe quella di appioppare Alitalia in capo allo stato; ma non direttamente, così da salvaguardare le forme.

Si procederà probabilmente a valutare l’ingresso nel capitale di Cassa depositi e prestiti, ente controllato dal Tesoro, che per statuto non può investire, però, in società in perdita. Se nemmeno il nuovo amministratore delegato di nomina governativa fosse in grado di giustificare una siffatta operazione (le Fondazioni azioniste sono contrarissime), si potrebbero trovare espedienti per aggirare l’ostacolo, come la creazione di una società formalmente autonoma, nei fatti controllata dalla Cdp, non tenuta al rispetto del vincolo statutario a cui soggiace quest’ultima.

Alitalia accollata alle Ferrovie?

Attenzione a un altro dato: il cda di Ferrovie dello stato è stato da poco rinnovato da Toninelli, che ha rimosso il vecchio board “filo-renziano” dietro il cavillo delle indagini per corruzioni a carico dell’ex ad Renato Mazzoncini. Al suo posto è stato nominato Gianfranco Battisti, mentre Gianluca Vittorio Castelli è andato alla presidenza. Nell’annunciare il rinnovo, il ministro ha fatto presente che la fusione tra Fs e Anas, voluta dal precedente governo, non si farà. Che forse abbia in mente di sostituirla con un’operazione del tutto simile, ma che abbia ad oggetto l’acquisizione di Alitalia? Treni e aerei per “fare sistema”. Questo verrebbe inculcato agli italiani, ossia che si tratterebbe di un investimento del tutto naturale per la società dei binari.

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Speriamo che le nostre siano solo elucubrazioni frutto della calura estiva, altrimenti saremmo dinnanzi all’ennesimo disastro industriale annunciato e giocato sulla pelle dei contribuenti. Per rilanciare Alitalia nel lungo raggio servirebbero non meno di 3 miliardi. E ci sono i 900 milioni più gli interessi del prestito dello stato da restituire. Insomma, la nuova proprietà si dovrebbe accollare non meno di 4 miliardi tra investimenti e oneri finanziari per fare ripartire la compagnia.

Ammesso che si trovi un investitore domestico per solo il 51%, farebbero comunque un paio di miliardi, mentre qualche buon samaritano straniero ne inietterebbe altrettanti. Nel caso delle Fs, parliamo di un gruppo con un fatturato annuo di 9,3 miliardi e un utile netto maturato nel 2017 per 552 milioni. L’Anas hanno portato in dote debiti per oltre 9 miliardi di euro, per cui volete che il nuovo cda non sia contento di scrollarsi di dosso tale fardello, al costo di qualche miliardo da spendere per salvare un “asset strategico nazionale”? Al diavolo la concorrenza tra treni e aerei sul mercato italiano, chi se ne frega dell’ennesimo salvataggio pubblico mascherato. L’importante resta sempre salvaguardare posti di lavoro e inaugurare l’ennesimo rilancio, diffondendo l’ennesima fiducia vuota sulle capacità miracolistiche del nuovo salvatore di turno. Tanto a pagare è pantalone!

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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