Il dato sull’inflazione negli USA a maggio è salito al 5%, oltre il 4,7% atteso dagli analisti. Si tratta del dato più alto dall’agosto 2008. Allora, l’economia americana stava per entrare nella sua peggiore crisi finanziaria dal 1929. Lo scorso mese, invece, l’impennata dei prezzi al consumo arrivava per effetto del rimbalzo del PIL americano con le graduali riaperture delle attività dopo le restrizioni anti-Covid. Il dato “core”, cioè al netto delle componenti volatili come generi alimentari e prodotti energetici, è anch’esso salito.
La borsa americana ha reagito negativamente alla pubblicazione, mentre il Treasury a 10 anni è salito da meno dell’1,50% all’1,53%. Negli stessi minuti, la BCE iniziava la conferenza stampa successiva al board. Poco prima, aveva annunciato il mantenimento dei tassi d’interesse e degli stimoli monetari ai livelli precedenti. Nel comunicato finale, precisava che gli acquisti di bond con il PEPP rimarranno invariati e “significativamente superiori a quelli di inizio anno per il prossimo trimestre”.
Migliorate le previsioni BCE sull’Eurozona
Ciononostante, il rendimento decennale italiano è risalito in area 0,84%, mentre lo spread BTp-Bund a 10 anni schizzava a oltre 112 punti base subito dopo il comunicato, salvo scendere in area 106 immediatamente nei minuti successivi. Questo è dovuto al miglioramento delle previsioni macro della BCE, fornite a inizio conferenza stampa dal governatore Christine Lagarde. Nel dettaglio, il PIL dell’Eurozona per quest’anno è atteso in crescita del 4,6% (+4% a marzo), del 4,7% nel 2022 (da +4,1%) e del 2,1% nel 2023 (invariato). L’inflazione quest’anno salirebbe all’1,9% (da 1,5%), frenando all’1,5% nel 2022 (da 1,2%) e attestandosi all’1,4% nel 2023 (invariato).
In generale, quindi, l’istituto prevede un’economia nell’area più reattiva alla crisi della pandemia, ma continua a smentire l’allarme inflazione. La crescita tendenziale dei prezzi rimarrebbe sotto il target di poco inferiore al 2% per il triennio in corso, segno che una politica monetaria accomodante dovrà essere mantenuta per giungere all’obiettivo.
Ma dopo il dato sull’inflazione a maggio negli USA, cosa succede? Il 5% è considerato dagli analisti una sorta di soglia-limite, superata la quale la Federal Reserve interverrebbe per non perdere il controllo della stabilità dei prezzi. Ulteriori accelerazioni, quindi, non sarebbero più tollerate neppure transitoriamente. D’altra parte, l’indice dei prezzi è salito dello 0,6% contro lo 0,8% di aprile. Sembra che l’inflazione americana sia culminata o stia per culminare prima di eventualmente decelerare la corsa. E ancora una volta, il traino è arrivato dai prezzi di carburante e materie prime.
Allarme inflazione solo al 5%?
Possiamo considerare il 5% una soglia-limite anche per le altre banche centrali? Il discorso è questo: se la FED tollererà un’inflazione del 5%, BCE, Banca d’Inghilterra, Banca del Giappone, etc., difficilmente potranno mostrarsi meno accomodanti o schiettamente restrittive con tassi d’inflazione al 2% o poco oltre. Rischierebbero di provocare l’apprezzamento dei rispettivi tassi di cambio, ottenendo due effetti indesiderati: colpire le esportazioni in una fase di ripresa delle economie; importare deflazione, riducendo il costo dei beni acquistati all’estero.
Poiché la FED gestisce la politica monetaria della prima economia mondiale, essa nei fatti finisce per battere tempi e modi delle policy altrove. Sarebbe eccessiva la distanza tra le due sponde dell’Atlantico nel caso in cui la BCE iniziasse a ritirare gli stimoli per un allarme inflazione scattato 2-3 punti percentuali prima degli USA. Del resto, nell’ultimo decennio ci siamo abituati – ed è un bene – a tassi d’inflazione molto bassi, spesso rasentanti lo zero. Ma fino a non molto tempo fa, il 4-5% non era guardato con così orrore dai banchieri centrali, anzi a quei livelli l’inflazione era considerata “moderata”, quando oggi già parliamo di livelli fuori controllo. Come già anticipato più volte, dovremmo iniziare a scontare banche centrali in modalità “vintage”.