Altro che pensioni minime a 1.000 euro, c’è chi prende 300 euro o meno, ecco perché

Le pensioni minime a 1.000 euro, le integrazioni e le maggiorazioni, ma c'è chi prende 300 euro o meno, ecco perché.
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Altro che pensioni minime a 1.000 euro, c'è chi prende 300 euro o meno, ecco perché
Foto © Investireoggi

Ogni giorno si discute molto di pensioni, partendo da due diverse prospettive. Da un lato, si parla dei requisiti, che per alcuni sono troppo rigidi e, per altri, andrebbero ulteriormente inaspriti. Dall’altro lato, si discute delle cosiddette pensioni minime, quindi degli importi percepiti.

La pensione minima è un tema sempre attuale e caro a molti pensionati che ricevono trattamenti piuttosto bassi. Ad esempio, Forza Italia ha promesso di portarle a 1.000 euro. Poi ci sono le maggiorazioni, le integrazioni, gli extra aumenti derivanti dalla perequazione e varie altre ipotesi che parlano di pensioni minime da 600 o 700 euro al mese.

La realtà, però, è diversa. In Italia, molti pensionati percepiscono importi molto inferiori rispetto alle cifre di cui si sente parlare o cifre promesse.

“Smettete di parlare di pensioni minime da 500 euro o più. Io, dopo 21 anni di lavoro in amministrazioni pubbliche e scuole, prendo 295 euro al mese.”

“Salve, volevo capire perché la mia pensione è pari a circa 300 euro al mese e non posso fare nulla per aumentarne l’importo, visto che si parla di minime oltre 600 euro o di integrazione al milione, se non addirittura di portarle a 1.000 euro al mese.”

Altro che pensioni minime a 1.000 euro: c’è chi prende 300 euro o meno, ecco perché

Le lettere di sfogo che alcuni lettori ci inviano, come quelle riportate sopra, dimostrano quanto detto in premessa. Nonostante si parli spesso di pensioni minime, o meglio di pensioni integrate al minimo che prevedono cifre più alte, ci sono persone che continuano a percepire prestazioni di importo molto basso. Questo accade perché molti contribuenti, a causa delle loro carriere lavorative, non hanno diritto a trattamenti integrati al minimo.

Ad esempio, i lavoratori che hanno iniziato a versare contributi dopo il 1995, ossia quelli che rientrano nel sistema contributivo, non hanno diritto a una pensione integrata al minimo.

Con il sistema contributivo, infatti, si riceve una pensione in base ai contributi versati. Di conseguenza, la pensione è commisurata al numero di anni di contributi versati e all’importo di tali contributi.

Il calcolo contributivo è nemico della pensione minima

Il metodo contributivo è stato introdotto proprio per essere più equo rispetto al metodo retributivo. Quest’ultimo si basava sulle ultime retribuzioni, che spesso erano in crescita rispetto alla media della carriera, portando a pensioni ben superiori a quanto il lavoratore avrebbe “meritato” in base ai contributi effettivamente versati.

Ad esempio, c’era chi riusciva a sfruttare un avanzamento di livello o un cambio di mansioni verso la fine della carriera, facendo aumentare la retribuzione. E, di conseguenza, la pensione. Mentre per gran parte della carriera, la retribuzione era stata molto più bassa. Questo meccanismo favoriva i cosiddetti “furbetti della pensione”, che cercavano di far lievitare la loro futura pensione negli ultimi anni di lavoro.

Con il sistema contributivo, invece, questo non accade. L’INPS liquida una pensione commisurata ai contributi effettivamente versati. Anche se si versano contributi più alti negli ultimi anni, l’impatto sulla pensione è limitato, poiché il montante contributivo degli anni precedenti è già stato definito. Questo incide sul calcolo finale della pensione.

Ecco alcuni esempi di pensioni molto basse e perché accade

Un lavoratore che ha versato 20 anni di contributi dopo il 1995, se dipendente, ha destinato il 33% della sua retribuzione lorda utile ai fini pensionistici al montante contributivo. Ammettendo uno stipendio iniziale di 9.000 euro all’anno nel 2000, salito a 12.000 euro nel 2024, per una media di circa 10.000 euro all’anno, il 33% equivale a 3.300 euro di contributi all’anno. Quindi, in 20 anni, ha versato circa 66.000 euro.

A 67 anni, quando il lavoratore andrà in pensione, il trattamento sarà basato su questi 66.000 euro. Che saranno rivalutati in base all’inflazione intervenuta negli anni.

Ammettendo una rivalutazione che porti il montante a 70.000 euro, questa cifra sarà moltiplicata per il coefficiente di trasformazione, che a 67 anni è pari a 5,723%. In questo caso, il lavoratore riceverà una pensione annua di 4.006,10 euro, che divisa per 13 mensilità equivale a circa 310 euro al mese.

Poiché le pensioni contributive non sono integrate al minimo, ecco spiegato perché ci sono persone che percepiscono pensioni ben inferiori ai 500 euro al mese.

Giacomo Mazzarella

In Investireoggi dal 2022 è una firma fissa nella sezione Fisco del giornale, con guide, approfondimenti e risposte ai quesiti dei lettori.
Operatore di Patronato e CAF, esperto di pensioni, lavoro e fisco.
Appassionato di scrittura unisce il lavoro nel suo studio professionale con le collaborazioni con diverse testate e siti.

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