Novità anche per i Piani individuali di risparmio (PIR) con la legge di Stabilità per il 2022. Gli investimenti beneficeranno degli incentivi fiscali fino a 40.000 euro all’anno (dai 30.000 euro attuali) e fino alla soglia massima complessiva di 200.000 euro nell’arco dei 5 anni (dai 150.000 euro). Ricordiamo che si tratta di veicoli d’investimento nati su volontà del legislatore un quinquennio fa, destinati per almeno il 70% agli strumenti (azioni, obbligazioni) emessi da società quotate in Italia. E il 30% di questa quota (21% del patrimonio totale) deve essere investito in strumenti emessi da società quotate all’infuori dell’indice principale (FTSE MIB).
I risparmiatori italiani che investono nei PIR e li detengono per almeno 5 anni consecutivamente, potranno beneficiare della totale esenzione fiscale con riferimento alla tassazione degli utili maturati e alle imposte di successione. In sostanza, parliamo di uno strumento predisposto per incoraggiare gli investimenti a favore delle aziende nazionali. Un modo per mobilitare a fini produttivi parte di quell’immenso risparmio infruttifero parcheggiato nelle banche italiane.
I rischi di questi veicoli d’investimento
Tuttavia, i PIR sono di per sé diseducativi. La prima regola di chi investe consiste nella diversificazione, al fine di contenere i rischi. E i PIR riducono fortemente la diversificazione, concentrando gli investimenti sul piano geografico nella sola Italia. Non un bel modo di impiegare il denaro. Anche perché i dati storici ci spiegano che la borsa italiana ha fatto peggio delle altre negli ultimi decenni. Ad esempio, ancora oggi l’FTSE MIB resta di circa il 40% inferiore ai livelli raggiunti nel 2007. Altrove, come per l’S&P 500, nel frattempo è triplicato di valore.
In un certo senso, i PIR rischiano di intrappolare i risparmi degli italiani. Non solo, c’è il fattore liquidità a rilevare. Poiché una quota non indifferente degli investimenti deve essere indirizzata a favore di strumenti emessi da piccole e medie società quotate in segmenti come AIM e Small Cap, esiste il grosso rischio che i fondi non riescano facilmente a disinvestire all’occorrenza.
E siamo così sicuri che, al netto dei rischi sopra accennati, l’investimento beneficerà degli incentivi fiscali? Facciamo un esempio pratico per capire. Supponiamo di investire 40.000 euro per 5 anni e di riuscire ad ottenere un rendimento medio annuo del 5%. Questo significa che dopo un anno il nostro capitale salirebbe a 42.000 euro, dopo due anni a 44.100 e così via fino a 51.005 euro al termine del quinquennio. Quanto abbiamo risparmiato di tasse? In totale, il 26% (aliquota sui redditi di natura finanziaria) su 11.005 euro (51.005 – 40.000), cioè 2.861,30 euro.
I costi esosi dei PIR
Ma ci sono le commissioni. E qui viene il bello, anzi il brutto dei PIR. Esse sono generalmente più elevate di quelle imposte su altre forme d’investimento. I fondi scontano proprio i maggiori rischi teorici di cui sopra, di fatto caricandoli sull’investitore. Esistono commissioni del 2% all’anno, che sono applicate su tutto il valore del capitale, non solo sull’utile maturato, come nel caso dell’imposta risparmiata. Ed ecco che già il primo anno pagheremmo 800 euro sul capitale iniziale, il secondo anno 840 euro, il terzo anno 882 euro, il quarto 972 euro e il quinto 1.020 euro. Facendo la somma, ci accorgiamo che il costo supererebbe nettamente il beneficio fiscale. In altre parole, dovremmo auspicare che gli utili realizzati risultino relativamente alti per non incorrere in una fregatura.
Al 30 giugno scorso, gli asset gestiti dai PIR ammontavano a 19,65 miliardi, più dei 18,725 miliardi del 2019 e nettamente maggiori dei 14,487 miliardi del 2020. Di questi, 9,7 miliardi riguardavano azioni, 5,8 miliardi obbligazioni e 4,15 miliardi altri asset. Quanto al segmento d’investimento, 4,4 miliardi di euro erano in azioni del MidCap, 4,2 miliardi nell’FTSE MIB, 725 milioni nelle Small Cap, 266 milioni nell’AIM e 117 milioni altrove.