In questi mesi di lockdown e restrizioni varie anti-Covid, siamo abituati a vedere immagini di file davanti ai supermercati per fare la spesa. Nel Kuwait, quando è stata consentita la riapertura dei negozi, i cittadini si sono messi in fila davanti alle gioiellerie, che hanno preso d’assalto. Uno degli stati più ricchi al mondo e con un benessere tra la popolazione molto diffuso sta avendo un primo assaggio di crisi fiscale. La sua economia da circa 145 miliardi di dollari dipende per metà dal petrolio, che incide per il 90% delle esportazioni.
A causa della pandemia, il prezzo del greggio sui mercati internazionali è collassato e, pur riprendendosi parzialmente nelle ultime settimane, resta di circa 20 dollari più basso rispetto ai livelli di inizio anno. Peccato che al Kuwait per pareggiare i conti pubblici servano quotazioni a circa 86 dollari al barile. Per Costituzione, il governo deve garantire a tutti un lavoro e assistenza diffusa. E così, l’80% di chi lavora è dipendente pubblico. Gli stipendi statali e i sussidi divorano il 70% del bilancio.
Il Ministero delle Finanze aveva avvertito sin da questa estate che entrambe le voci di spesa sarebbero state a rischio dopo il mese di ottobre. Per quanto lo scenario più grave non si sia ancora avverato, si stima che le finanze pubbliche non ce la facciano oltre il prossimo mese. A inizio anno, quando la pandemia già si era diffusa nel mondo, l’allora ministro delle Finanze venne mandato a casa per avere proposto un taglio a stipendi e sussidi e l’aumento delle tasse per rimettere in sesto i conti pubblici.
In realtà, il Kuwait siede su una montagna di soldi. Il suo fondo sovrano dispone di 533 miliardi di dollari investiti, ma il governo non può farvi ricorso, non essendo autorizzato dal Parlamento. Anzi, per effetto di una legge di anni fa, non può emettere debito sopra i 33 miliardi di dollari, quando si stima che entro il 2024 gli servirebbero sui 90 miliardi in più per gestire i conti tra basse quotazioni del petrolio e alta spesa pubblica.
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Riforme economiche difficili, ma urgenti
Il 5 dicembre prossimo si terranno le elezioni per il rinnovo del Parlamento e il nuovo emiro, lo sceicco Nawaf al Ahmad al Sabah, succeduto a settembre al defunto 91-enne Sabah al Ahmad al Sabah, dovrà sperare di ritrovarsi una maggioranza di deputati favorevoli all’innalzamento del tetto del debito. Il problema è che diversi scandali di corruzione hanno riguardato negli ultimi anni sia il governo che la stessa Famiglia Reale, quest’ultima sospettata di avere attinto a centinaia di milioni di dollari spariti da un fondo militare. I sudditi si mostrano scarsamente propensi a compiere sacrifici, ritenendo che non vengano chiamati a contribuire anche politici e reali.
Le riforme economiche diventano sempre più difficili da implementare, pur necessarie. Le casse statali dipendono per il 90% dal petrolio e di questo passo diventa impossibile mantenere il generosissimo sistema di assistenza sociale, che include prezzi politici per le bollette della luce e carburante. A settembre, Moody’s ha tagliato il rating sovrano da Aa2 ad A1. Non era mai successo nella storia kuwaitiana. Questo lembo di terra rovente, stretto a nord dall’Iraq e a sud dall’Arabia Saudita, ha una popolazione di circa 4,5 milioni di abitanti, di cui 3,3 milioni sono immigrati. Qui, le temperature raggiungono i livelli più alti al mondo. Nel luglio 2016, nella città di Mitribah, nel nord-ovest dell’emirato, si toccarono i 53,9 gradi Celsius, allora il terzo livello più alto di sempre e record assoluto in Asia. Ma non è il caldo che sta impensierendo in questi mesi i governanti, quanto il rischio di restare a secco di dinari per diatribe tra poteri istituzionali e per l’impossibilità di spiegare ai sudditi che la vita gratis a cui sono stati abituati negli ultimi decenni sia insostenibile.
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