“Non siamo stati in grado”. Queste le parole di Augustin Rossi, capo di gabinetto del governo sull’inflazione in Argentina, salita al 104,3% a marzo. La situazione è disperata. Ci si è messa anche la siccità ad aggravare il problema dell’instabilità dei prezzi. I magri raccolti stanno facendo crollare le esportazioni di derrate alimentari. Si prevede che all’estero saranno vendute solo 25 milioni di tonnellate di soia contro una media quinquennale di 45 milioni. Minori esportazioni significano minori entrate di valuta estera, un grosso guaio per una banca centrale con riserve valutarie nette scese ad appena 1,3 miliardi di dollari.
Avanza candidato destra “anarco-capitalista”
Tutto questo sta accadendo a distanza di pochi mesi dalle elezioni presidenziali. Non si sa ancora ufficialmente se la coalizione peronista al governo si presenterà compatta e quale sarà il rivale di centro-destra. In teoria, proprio i moderati dovrebbero vincere alle urne. Ma l’assenza di volti certi rende sempre meno folle l’idea che possa spuntarla un candidato cosiddetto “outsider”, un po’ come lo fu l’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro nel 2018. Parliamo di Javier Milei, 52 anni, deputato dell’ultra-destra di origini italiane e conduttore radiofonico con un passato di economista.
Milei è atipico per l’Argentina. Sostiene che l’intera classe politica sia corrotta e che debba essere messa nelle condizioni di non nuocere all’economia. Per questo, ritiene che la banca centrale andrebbe chiusa e al suo posto si dovrebbe adottare il sistema bancario Simons. In soldoni, la quantità di moneta emessa dovrebbe essere costante, così da non generare inflazione. Si rifà esplicitamente alla scuola austriaca, fondendone i principi con il monetarismo di Milton Friedman. Ha dichiarato in passato di avere studiato economia sin dall’età di undici anni, al fine di capire quali fossero le cause dell’alta inflazione.
Dollaro al posto dei pesos
Tagliando la testa al toro, Milei propone di rimpiazzare i pesos con il dollaro.
Quando l’allora neoeletto presidente Mauricio Macri svalutò il peso nel dicembre 2015, il cambio schizzò a 15:1. Oggi, per strada per un dollaro servono 400 pesos. E pensate che prima del drammatico default di inizio 2002, il cambio era fissato a un tasso di 1:1. Le aspettative sono negative, anche perché dopo le elezioni sembra sempre più probabile che il governo sia costretto ad avallare una nuova svalutazione. Per questa ragione le famiglie stanno accorrendo da tempo a convertire i risparmi in dollari, accentuandone la domanda e accelerando il collasso valutario.
Serve shock macroeconomico in Argentina
Un’eventuale vittoria di Milei, per quanto al momento sia da ritenersi altamente improbabile, segnerebbe un nuovo inizio per l’Argentina. Il candidato ha esternato la sua ammirazione per l’ex presidente americano Donald Trump. Da un lato, quindi, non sarebbe visto granché bene dall’attuale amministrazione democratica. D’altro canto, sposterebbe proprio a favore degli Stati Uniti gli equilibri geopolitici in America Latina, dato che l’uomo è un libertario (si auto-definisce “anarco-capitalista”) e guarderebbe all’Occidente e al libero mercato, anziché all’autoritarismo di stampo cinese.
E rimpiazzare i pesos con il dollaro sarebbe un’operazione controcorrente rispetto all’attuale tendenza tra le economie emergenti di allentare la dipendenza dalla valuta di riserva mondiale. In sé, tuttavia, non basterebbe a garantire il rilancio dell’economia argentina. Servirebbe a battere l’inflazione e ad attirare capitali stranieri, ma si correrebbe il rischio di perdere competitività sui mercati internazionali in assenza di riforme macroeconomiche.