Chi lo avrebbe detto che la presidenza Macri si sarebbe conclusa con il ripristino dei controlli sui capitali e l’annuncio di un “reprofiling” del debito contratto verso il Fondo Monetario Internazionale? Eppure, Buenos Aires è giunta alle estreme conseguenze, quando alla fine di agosto il cambio contro il dollaro era crollato a un soffio da 60, mentre i prezzi dei bond erano sprofondati ai nuovi minimi storici, con le obbligazioni a 100 anni a scendere sotto 38 centesimi di dollaro. La banca centrale è nel frattempo intervenuta con la vendita di biglietti verdi da un lato e ottemperando all’obbligo del governo di restringere l’accesso all’acquisto di dollari.
Queste misure sono servite a placare apparentemente gli animi, se è vero che il bond a 100 anni è risalito a 47 centesimi, mentre il peso si è rafforzato di circa il 6% rispetto ai minimi precedenti. Al termine della seduta di venerdì, il titolo con scadenza gennaio 2117 (ISIN: US040114HN39), emesso in dollari solamente due anni fa, prezzava poco sopra 47 e rendeva il 16,3%. Quest’anno perde così il 35% e vede impennare il rendimento di ben 600 punti base (+6%). Questi numeri offrono l’idea di un collasso, tanto più grave se si considera che nello stesso frangente un altro centenario ha compiuto grossi passi nella direzione opposta.
La maledizione dell’Argentina si chiama dollaro e non può farne a meno
L’Austria ha emesso due anni fa un titolo con scadenza settembre 2117 e cedola 2,10% (ISIN: AT0000A1XML2). Oggi quota a 186 e offre appena lo 0,66% all’anno di rendimento. E pensate che non è nemmeno il minimo storico, dato che alla fine di agosto il prezzo era esploso fin sopra 203. Quest’anno, segna un rialzo del 60%, che ha fatto sprofondare il rendimento esattamente di 100 punti base (1%), vale a dire di quasi i due terzi. Dunque, abbiamo due bond emessi in valute forti, ma uno esplode di rendimento e l’altro di prezzo.
Sollievo temporaneo per i “tango bond”
La risalita del bond a 100 anni dell’Argentina nelle ultime sedute è da intendersi come puramente temporanea. Vero, il mercato ha scontato già la sconfitta quasi certa di Mauricio Macri alle presidenziali di ottobre/novembre contro il candidato peronista Alberto Fernandez. Ciò non significa che il peggio sia già stato incorporato nei prezzi. Il “reprofiling” unilateralmente annunciato dal governo sui 44 miliardi di dollari di aiuti dell’FMI già incassati aggravano lo scenario, perché mettono adesso Washington dinnanzi a un dilemma persino peggiore di quello sin qui ipotizzato: sborsare la nuova tranche da 5,4 miliardi dei 57 miliardi in tutto stanziati un anno fa e rischiare di aumentare le perdite a carico del proprio bilancio, oppure porre fine agli aiuti e ritrovarsi dinnanzi a un collasso senza paracadute dell’economia argentina?
A questo punto, se anche rivincesse Macri, gli aiuti dell’FMI resterebbero in forse, perché l’istituto non potrebbe accettare a cuor leggero che venissero disattesi i termini dell’accordo siglato con Buenos Aires nel 2018. Se vincesse Fernandez, com’è probabile, questi ha già fatto sapere che chiederà una rinegoziazione degli aiuti. Pertanto, le tensioni finanziarie riappariranno nell’uno o nell’altro caso e continueranno a zavorrare i “tango bond”, anche perché i controlli sui capitali intervengono in un momento, in cui già i tassi di cambio sul mercato nero divergono da quelli ufficiali ai massimi dall’insediamento di Macri, cosa che indicherebbe che il peso sarebbe ancora sopravvalutato e che, quindi, le riserve valutarie rischiano di assottigliarsi, aumentando il rischio di default per la carenza di dollari con cui onorare le scadenze in valute straniere.
Bond Argentina ancora più “spazzatura” e l’accordo con l’FMI ora è a rischio