Condizione femminile migliorata in Italia dopo il divorzio
Poi, quella Costituzione è stata disattesa in troppi punti, uno dei quali proprio l’incipit. Se è il lavoro a dare dignità alla persona, tanto che lo stato dovrebbe impegnarsi “a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” (art.3 Cost) che impediscono il pieno sviluppo della persona, non si capisce quale sia stata la ragione, per cui in 40 anni abbiamo tenuto in piedi un impianto normativo, il cui fine è stato di garantire al coniuge economicamente svantaggiato non già un tenore di vita dignitoso, di cui giustamente avrebbe diritto, ma in linea con quello di cui godeva all’epoca in cui era unito in matrimonio al coniuge più ricco.
Certo, quando la legge sul divorzio veniva approvata negli anni Settanta, la condizione femminile in Italia era di gran lunga peggiore a quella attuale. Il legislatore scelse di proteggere il gentil sesso, che da una posizione lavorativa e finanziaria più debole avrebbe potuto almeno evitare di subire la separazione come un danno per la sua sfera economica. Da allora, però, non che si sia fatto granché per migliorare la condizione delle donne, il cui tasso di occupazione rimane tra i più bassi di tutta l’area OCSE, di 20 punti percentuali in meno rispetto a quello tra gli uomini, non arrivando nemmeno al 40% in certe regioni del Sud.
Tanti i casi di parassitismo sociale
Il passo in avanti della Cassazione nel porre fine a una situazione di parassitismo sociale, pur solo con riferimento all’assegno di mantenimento post-divorzio, potrebbe essere solo il primo di una serie di interventi, che avremmo auspicato fossero adottati dal Parlamento, ma che forse finiranno per essere decisi ancora una volta dai giudici.
Che dire dell’idea tutta italiana, per cui un figlio potrebbe essere mantenuto dai genitori anche in età lavorativa e pur dimostrando scarsa attitudine agli studi e al lavoro? L’Italia è il paese degli studenti fuori corso anche da decenni e senza spesso una valida ragione; del posto fisso irremovibile nel pubblico impiego; dei diritti acquisiti; degli abusi di diritti pur giusti in sé, come per la legge 104; dei precari nella Pubblica Amministrazione, che pretenderebbero di scavalcare in graduatoria i vincitori di un concorso, in aperta violazione della Costituzione e, soprattutto, della meritocrazia.
Siamo anche uno strano paese, in cui dibattiamo da mesi non tanto su come creare nuova occupazione, bensì su come garantire a tutti un reddito minimo, a seconda dei casi definito di cittadinanza, di inserimento, etc., quale rincorsa della politica spicciola senza idee alle istanze altrettanto spicciole provenienti dagli elettori. In pratica, il nostro paese vive costantemente nell’illegalità – passateci il termine forte – ovvero in contrasto perenne con l’incipit della Carta fondamentale, trovando di volta in volta soluzioni sempre più raffazzonate e immediate per evitare di dare risposte all’esigenza socialmente avvertita della carenza di lavoro, creando l’illusione che si possa vivere in una società dei balocchi, dove in pochi tirano la carretta e in tanti guardano e beneficiano dei loro sforzi. (Leggi anche: Reddito di cittadinanza è roba da francescani?)