Serve una rivoluzione culturale
Esiste il diritto di un pensionato, che ha versato nella sua carriera lavorativa quattro lire di contributi, di vedersi accreditato ogni mese un mega-assegno da 7-8-9-10.000 euro al mese (per non parlare dei casi ancora più eclatanti), usufruendo di leggi ridicole e destituite di ogni buon senso? Esiste il diritto di un impiegato pubblico ad essere mantenuto alle dipendenze di un ufficio, dove il personale risulti a dir poco abbondante e il cui contributo è praticamente inesistente, per il solo fatto che in Italia chi entri nella Pubblica Amministrazione ha fatto bingo? Esiste il diritto di una categoria professionale di pretendere che sul suo mercato non entrino nuovi concorrenti, come se la competizione fosse un male da tollerare solo per alcune fasce sfigate della popolazione? (Leggi anche: Riforma pensioni: Poletti tutela diritti acquisiti)
L’Italia dei diritti ha subito un duro colpo con la sentenza della Cassazione, ma siamo solo agli inizi. Serve una rivoluzione giurisprudenziale, oltre che culturale, per trasformare l’Italia in un paese in cui per vivere bisogna mettersi in testa di lavorare, concetto che non coincide necessariamente con l’occupare un posto. In troppi accampiamo pretese, riteniamo che tutto ci sia dovuto, che il sacrificio sia partecipare a uno o più concorsi pubblici e che entrare a fare parte di “caste” chiuse ci dia il diritto di escludere il resto della società dai nostri “diritti”. Da poche settimane, abbiamo almeno iniziato a imparare che per fare la vita da nababbo non è più così scontato che basti sposarsi con un paperone.