Brutto colpo, l’ennesimo, dai dati sull’inflazione americana a gennaio. E’ salita al 3% annuale dal 2,9% di dicembre e segnando su base mensile un’accelerazione allo 0,5% dallo 0,4%. Anche il dato “core”, al netto di energia e generi alimentari, segna un aumento dal 3,2% al 3,3%. Ancora una volta una cattiva sorpresa per coloro che stanno scommettendo sull’ulteriore taglio dei tassi di interesse. La realtà si sgancia sempre di più dal mondo dei desideri e ci riserva un’amara verità: senza una dose di austerità fiscale, la pressione rialzista sui prezzi al consumo non verrà meno.
Austerità dopo anni di sbornia fiscale
In Europa la situazione non è poi così diversa.
L’inflazione a gennaio nell’Area Euro è salita al 2,5%; più bassa del 3%, anche se a fronte di una crescita economica ben inferiore. La Banca Centrale Europea segnala di voler tagliare i tassi anche a marzo per la sesta volta, mentre la Federal Reserve ha già dovuto annunciare una pausa a fine gennaio. Ma com’è possibile che l’inflazione resti alta dopo che per anni le banche centrali hanno alzato i tassi, portandoli ai livelli più alti da un ventennio a questa parte?
E’ il deficit, bellezza! Gli Stati Uniti hanno chiuso con un disavanzo fiscale al 6,7% del Pil nel 2024 e per quest’anno la discesa è attesa nell’ordine di qualche decimale. Nei cinque anni passati, il debito americano è cresciuto di ben 7.500 miliardi di dollari, salendo di quasi 17 punti percentuali rispetto al Pil. Un fiume di denaro, che sostiene la domanda e impedisce la recessione economica, ma a costo di far lievitare i prezzi. Senza tagli alla spesa pubblica e/o un aumento delle entrate, l’inflazione difficilmente si sgonfierà da sola.
L’austerità, così impopolare in ogni luogo e in ogni dove, si rivela sempre più necessaria.
Spesa pubblica difficile da tagliare
Del resto, l’inflazione non è esplosa negli anni passati per qualche strana ragione inspiegabile o a seguito di un flagello divino. I governi sostennero le rispettive economie a colpi di sussidi in deficit durante la pandemia, mentre le banche centrali azzeravano i tassi di interesse e pompavano liquidità sui mercati. Il combinato tra espansione monetaria e fiscale ha sì impedito la depressione e favorito il rimbalzo quasi immediato del Pil, ma al contempo ha sostenuto la corsa dei prezzi.
Le banche centrali il loro lavoro, pur in ritardo, lo hanno svolto. Hanno alzato i tassi e posto fine a folli politiche monetarie non convenzionali, portate avanti sin dal decennio precedente. Hanno iniziato a tagliare i tassi confidando che l’inflazione, in discesa, avrebbe raggiunto i target quanto prima. Non sta avvenendo, perché nel frattempo i governi stanno trovando grosse difficoltà nel tornare ai livelli di deficit pre-Covid. La spesa pubblica è come la droga. Una volta che la si offre come rimedio ad una crisi, ritirarla è difficile. Si traduce in stipendi e sussidi, per cui tagliarla diventa impopolare.
Marcia indietro su globalizzazione
Quella che oggi definiremmo austerità, a rigore sarebbe semplicemente un ritorno alla normalità. Oltretutto, l’inflazione risentirà nei prossimi anni anche della “deglobalizzazione” in corso.
E non parliamo solamente dei dazi americani, bensì del fenomeno del “reshoring“, cioè del rimpatrio/accorciamento delle catene di produzione. Ciò aumenterà i costi di produzione e si rifletterà sui prezzi al consumo. La sensazione, per non dire timore, è che se Maometto non andrà alla montagna, sarà la montagna ad andare da Maometto. Frustrate dall’impossibilità di tendere ai target, le banche centrali alzeranno formalmente o ufficiosamente questi ultimi, finendo nei fatti per tollerare un’inflazione più alta. Per l’allegria dei governi, che tramite tale via potranno evitare scelte fiscali più dolorose e ridurre il peso dei debiti, monetizzandoli.