Con l’apertura della procedura d’infrazione a carico di sette stati comunitari, tra cui Italia e Francia, è finita la pacchia sui conti pubblici dopo quattro anni abbondanti di spese folli, bonus ed elargizione di ogni tipo nel nome del contrasto alla pandemia. Il commissario agli Affari monetari, Paolo Gentiloni, ha confermato che i suddetti paesi dovranno presentare una correzione di almeno mezzo punto percentuale rispetto al Pil. Per l’Italia sarebbero come minimo 10 miliardi di euro. Signori, è tornata la temuta austerità fiscale.
Austerità in arrivo con procedura d’infrazione?
Argomento sensibile, essendosi create su di esso numerose carriere politiche altrimenti destinate a ben altri impieghi. Può sembrare anatema anche solo porsi la domanda, ma la verità è che parliamo così tanto e da tanti anni della necessità di contrastare l’austerità di Bruxelles, che viene il dubbio che sia mai esistita. Con questo termine intendiamo una politica fiscale restrittiva. Ed è noto a molti che l’Italia è stata, contrariamente alla vulgata comune, una nazione parzialmente virtuosa sul fronte dei conti pubblici. Fino alla pandemia e sin dal 1992, con la sola eccezione del 2009, abbiamo sempre chiuso il bilancio dello stato con un avanzo primario. Al netto della spesa per interessi, quindi, abbiamo registrato entrate superiori agli esborsi.
Vero è, però, che gli interessi li stiamo pagando per debiti nostri, accumulati in decenni di sperperi con il plauso di noi cittadini. Pubblica Amministrazione ridondante, sprechi di denaro pubblico, baby pensioni, assistenzialismo a go-go, ecc. Dunque, non possiamo ignorare che il costo di tali eccessi sia dovuto e giustamente a carico nostro. Basterebbe questa constatazione per smentire che l’Italia abbia mai subito una reale cura all’insegna dell’austerità.
Spesa primaria a briglie sciolte con l’euro
C’è un’altra ragione per la quale dubitiamo seriamente di avere conosciuto l’austerità. Da quando siamo nell’Eurozona, la spesa pubblica italiana è esplosa da meno di 550 del 1998 a 1.215 miliardi di euro. Un balzo superiore al 120%, che al netto dell’inflazione si attesta sopra il 63%. In altre parole, abbiamo aumentato la spesa pubblica molto al di sopra del tasso d’inflazione. Scorporando la spesa per interessi, siamo saliti dai 457 del 1998 ai 1.021 miliardi attesi per quest’anno. Un boom del 60% in termini reali, qualcosa come l’1,8% all’anno sopra l’inflazione.
In rapporto al Pil, la spesa primaria è passata dal 40,4% al 47,2%. Se avessimo mantenuto la stessa percentuale di fine anni Novanta, il nostro deficit quest’anno stimato al 4,3% si trasformerebbe in un avanzo del 2,5%. Avremmo a disposizione più di 50 miliardi per abbattere la pressione fiscale, finanziare qualche investimento in più e aiutare realmente chi ha bisogno. Né possiamo affermare che questo aumento della spesa pubblica ci abbia aiutato con la crescita economica. Siamo l’unico stato dell’Eurozona, anzi dell’intero Occidente ad esclusione della Grecia, ad essere tornati ai livelli di Pil reale del 2007 solamente alla fine dello scorso anno.
Crescita economica trainata dal settore privato
Se le cose sono andate così male, non rischia di andare peggio con un po’ di austerità pretesa da Bruxelles? La risposta è negativa. Il risanamento dei conti pubblici non contrasta con la crescita, come dimostrano gli avanzi commerciali strutturali ottenuti da una dozzina di anni a questa parte, con l’unica eccezione del 2022. L’eccesso di spesa pubblica si traduce in maggiori importazioni, che vanno a detrimento del Pil.
Austerità necessaria per programmare a lungo termine
Non è lo stato il volano della crescita, bensì il mondo delle imprese, ossia la produzione di beni e servizi. La spesa pubblica deve concentrarsi sull’erogazione dei servizi essenziali (scuola, sanità, pensioni, difesa, sicurezza, infrastrutture, burocrazia minima, ecc.), senza mirare a soppiantare il settore privato. Il caso italiano conferma che quando ciò accade, si finisce per avere un settore pubblico ipertrofico e inefficiente con un’economia stagnante. L’austerità non piace a nessun governo, perché costringe a scegliere cosa tagliare, il che è elettoralmente terrificante. Ma essa induce a ragionare in un’ottica di medio-lungo periodo, unico orizzonte possibile per sostenere il rilancio dell’economia all’infuori delle classiche marchette elettorali.