Dall’Australia ennesimo colpo alla credibilità delle banche centrali

L'Australia ha scioccato i mercati finanziari ieri con l'aumento dei tassi, ennesimo segno di scarsa credibilità per le banche centrali.
2 anni fa
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Australia alza tassi, banche centrali sempre meno credibili

I mercati finanziari si sono svegliati nella giornata di ieri con la “doccia fredda” dell’aumento dei tassi d’interesse in Australia. La Reserve Bank ha ritoccato il “cash rate” all’insù dello 0,25% al 3,85%, ai massimi dall’aprile del 2012. Non che di per sé la mossa fosse incomprensibile. Con un’inflazione nel primo trimestre ancora al 7%, sarebbe perfettamente fisiologica. Solo che in aprile l’istituto aveva sospeso la stretta dopo dieci rialzi dei tassi consecutivi. Nel comunicato finale aveva testualmente dichiarato che bisogna considerare gli effetti ritardati della politica monetaria.

Prima di andare avanti, insomma, sarebbe stato opportuno valutare l’impatto delle misure già adottate. Che tale valutazione sarebbe arrivata ad appena un mese di distanza, però, non risulta credibile. Anzi, aggiunge un tassello di discredito all’insieme delle banche centrali del pianeta.

Australia torna sui suoi passi

La reazione dei mercati è stata contrariata. Ieri, l’indice S&P/ASX 200 alla Borsa di Sidney perdeva lo 0,92% e i bond sovrani dell’Australia a 2 anni risalivano al 3,25% dal 3% prima dell’annuncio. In molti tra analisti e investitori si sono chiesti del perché di una simile decisione in apparente contrasto con la sospensione della stretta ad aprile. E una possibile risposta risiederebbe nel fatto che le banche centrali a marzo tremarono con il crac di Silicon Valley Bank e Signature Bank negli Stati Uniti, nonché con il salvataggio in extremis di Credit Suisse in Svizzera.

In pratica, lo stop alla stretta in Australia sarebbe stato dovuto al timore che la crisi bancaria avrebbe travolto l’economia domestica tramite un possibile terremoto finanziario nel caso di ulteriori aumenti dei tassi. Ma l’allarme è rientrato nelle ultime settimane e così la Reserve Bank avrebbe ripreso ad alzare il costo del denaro. Una mossa, però, che non fa bene alla credibilità delle banche centrali.

Esse appaiono sempre più intente a proteggere i sistemi finanziari più che a combattere l’inflazione. E pur ammettendo che esisterebbe un legame diretto tra stabilità finanziaria e stabilità dei prezzi, emerge con sempre maggiore chiarezza che i comunicati ufficiali e i verbali delle riunioni siano documenti di facciata e che, invece, a porte chiusi i banchieri centrali parlerebbero di tutt’altro.

Dall’Australia arriva anche un bagno di realismo per i mercati di tutto il mondo. Non solo un invito a non confidare eccessivamente nelle dichiarazioni giornaliere dei governatori, ma anche la presa d’atto che un’eventuale sospensione della stretta non implica anche la sua cessazione. Federal Reserve, Banca Centrale Europea (BCE), Banca d’Inghilterra, ecc., potranno anche smettere di alzare i tassi già prima dell’estate, salvo sorprendere nei mesi seguenti se l’inflazione restasse elevata o tornasse a salire.

Disinflazione lenta e non scontata

Ieri, il dato sull’inflazione di aprile nell’Area Euro è stato giudicato dai mercati come prodromico a un aumento dei tassi dello 0,25% da parte della BCE. Lieve risalita dal 6,9% al 7%, ma inflazione di fondo in leggero calo dal 5,7% al 5,6%. Quanto basterebbe per indurre Francoforte a più miti consigli. Sarà, ma ancora troppo poco per osservare un’inversione di tendenza. Aiuta certamente lo sgonfiamento dei prezzi di gas e petrolio dopo il boom dell’anno scorso. Il primo si acquistava ieri ad Amsterdam per meno di 38 euro per Mega-wattora. Nel frattempo, il Brent è sceso sotto 80 dollari al barile e il cambio euro-dollaro continua a sostare a cavallo di 1,10.

D’altra parte, le tensioni sociali in Francia ci dovrebbero far aprire gli occhi circa la difficoltà che i governi europei (e non solo) incontreranno nel ridurre gli stimoli fiscali varati in pandemia e prolungati con la guerra. Fitch ne ha dedotto rischi fiscali per Parigi, declassandone il rating sovrano.

La maggiore spesa pubblica avrebbe effetti tonificanti per la domanda interna aggregata, rendendo più difficile, però, la disinflazione delle economie nazionali. E anche le rivendicazioni salariali potrebbero accentuarsi, finendo con l’alimentare una spirale con i prezzi.

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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