L’economia in Australia non si ferma e nel secondo trimestre di quest’anno è cresciuta di un altro 0,8%, in accelerazione dal +0,3% del primo trimestre, che era risultato il più debole dal 2009. E così, sono 104 i trimestri senza una variazione negativa del pil, pari esattamente a 26 anni. Il precedente record di 103 consecutivi senza recessione spettava all’Olanda, che viene così ufficialmente aggiornato. A trainare la crescita australiana sono stati essenzialmente i consumi: +0,7% nel periodo aprile-giugno, a fronte di un corrispondente calo dei risparmi da un tasso del 5,3% a uno del 4,6%.
E così, per avere traccia di un calo del pil in Australia bisogna tornare con la memoria alla metà del 1991, un’altra era sul piano economico e politico, se si considera che allora vi era ancora (per poco) in piedi l’Unione Sovietica e che la Cina era un’economia asiatica arretrata, mentre la globalizzazione si trovava solo in una fase iniziale. In questi oltre due decenni e mezzo, Canberra ha attraversato indenne il dissolvimento dell’Urss, la crisi delle cosiddette “tigri asiatiche” di fine anni Novanta, nonché lo scoppio successivo della bolla della “new economy”, l’11 settembre e la crisi finanziaria mondiale.
Che dire, se non solamente che l’economia australiana meriti soltanto di essere invidiata? Diversi gli ingredienti di un successo, che non ha pressoché nulla di misterioso. Le esportazioni dell’immenso paese dell’Oceania ammontano nell’ultimo anno a oltre 339 miliardi di dollari locali, poco meno di un quinto del pil. Peraltro, la sua bilancia commerciale risulta positiva solo negli ultimi mesi.
Il legame con la Cina
E proprio la rampante economia cinese spiega grossa parte del successo di quella australiana. Con il boom degli ultimi 25 anni, Pechino ha avuto bisogno di materie prime in quantità sempre maggiori e l’Australia è stata ben felice di fornirgliele, come carbone, ferro e gas. Si capisce così meglio perché la congiuntura dell’economia australiana sembra essere stata sganciata da quella del resto delle economie avanzate. Parliamo di un paese di dimensioni relativamente piccole, in termini di abitanti, geograficamente vicino a una super-potenza in forte crescita e che ha bisogno di acquistare proprio quello che esso ha a disposizione da vendere.
Ma la Cina da sola non spiega tutto. L’Australia ha riformato la sua economia sin dagli anni Ottanta, aprendo ai commerci internazionali, liberalizzando il tasso di cambio con la rimozione dei controlli sui capitali e reagendo in maniera appropriata alla caduta dei prezzi delle materie prime nell’ultimo triennio. La sua Reserve Bank ha tagliato i tassi al minimo storico dell’1,5% (livello ben più alto dei tassi negli USA, in Europa e in Giappone), stimolando i consumi interni da un lato e deprezzando il cambio dall’altro del 25% negli ultimi 5 anni contro il dollaro. In questo modo, man mano che le quotazioni delle commodities sono scese, in valuta locale sono aumentati i ricavi, compensando parzialmente la caduta.
Nonostante questo, l’inflazione resta bassa e di poco inferiore al 2%, mentre la disoccupazione risulta scesa al 5,6% a luglio. In realtà, potrebbe andare meglio per le famiglie, attraversate da un livello record di sottoccupazione (14,4%) e da una montagna di debiti privati, questi ultimi arrivati al 190% del pil e considerati la grande minaccia per l’economia nazionale, specie in un contesto di prossimo aumento dei tassi, quando inevitabilmente il peso delle rate dei mutui si farà sentire maggiormente.