Sono due le notizie bomba di questi giorni e che stanno minando dalle fondamenta l’Unione Europea. La prima riguarda il varo di un piano per il riarmo, che passa per 800 miliardi di euro di maggiore spazio fiscale concesso ai 27 stati membri in 4 anni. Di questi, 150 miliardi arriveranno tramite prestiti mirati. Legato ad essa vi è il cambio di politica fiscale a Berlino, dove la futura Grosse Koalition tra conservatori e socialdemocratici sta concordando un maxi-stimolo da 1.000 miliardi in deficit entro 10 anni. E poi c’è l’altra grande notizia, nell’aria da mesi: il Green Deal è stato ammorbidito ad appena un anno dal suo varo, tra l’altro concedendo alle case automobilistiche 3 anni di tempo e non più uno solo per mettersi in regola con le più stringenti limitazioni alle emissioni di CO2. E Bruxelles valuta l’opportunità di aprire ad altre tecnologie alternative dal 2035, evitando che resti in piedi il solo acquisto possibile di auto elettriche.
Unione Europea smentisce sé stessa
L’Unione Europea cambia pelle per non soccombere alla storia. Solamente alla fine del 2023 reintroduceva il Patto di stabilità dopo una sospensione lunga 4 anni, salvo un piccolo maquillage burocratico sui limiti al deficit. E sconfessa la sua stessa politica ambientale, abbracciata apparentemente a spada tratta nella scorsa legislatura. Cos’è cambiato in così pochi mesi? In molti risponderebbero il mondo. La realtà è che è cambiata molto più prosaicamente la maggioranza all’Europarlamento. I socialisti non fanno più il bello e il cattivo tempo insieme ai loro alleati Verdi. Il Partito Popolare ha capito l’antifona e per non fare la fine della sinistra, ha aperto alla destra conservatrice e finanche sovranista.
Non è accaduto niente di così eccezionale come sembra. Le politiche degli stati cambiano all’avvicendarsi dei governi di diverso colore politico. Solo che l’Unione Europea ci era apparsa quasi impermeabile al volere degli elettori. E lo è ancora in grossa parte. Ma anche le sue istituzioni sono consapevoli che devono rispondere alle richieste arrivate dalle elezioni europee e che continuano ad arrivare dalle urne nazionali. Il rischio è di sparire dalla scena per il totale malcontento che monta da anni contro di essa.
Lezioni dagli ultimi avvenimenti
Qual è la grande lezione che possiamo trarre da questi due avvenimenti in pochi giorni? Ricordate quando Italia e Commissione europea litigavano per lo zero virgola di deficit? Noi fummo tra coloro che osarono affermare si trattasse di un fatto ridicolo. E non perché le regole fiscali non abbiano senso. Anzi, i limiti all’indebitamento degli stati sono sacrosanti, altrimenti avremmo governi autorizzati a pensare di potersi indebitare senza rispondere mai a nessuno. Il problema è un altro: la politica non è ragioneria. Un deficit al 3,1% del Pil è perfettamente uguale a un deficit al 2,9%. Scatenare l’inferno per un eccesso dello 0,1% rispetto al tetto del 3% è da imbecilli. E l’Unione Europea in questi decenni imbecille lo è stata insieme ai suoi lacchè nelle varie capitali.
Potete eccepire che, in realtà, le regole fiscali siano state più infrante che osservate. E’ vero, anche se con riferimento ad alcuni stati preferiti ad altri: Francia e Spagna hanno potuto fare di tutto, mentre l’Italia è stata messa sotto osservazione come fosse un paria internazionale. Quest’aria di commissariamento ha contribuito alla sfiducia dei mercati verso i nostri titoli di stato e alla scarsa crescita economica. Vero, partivamo da livelli di debito più alti, ma tra una crisi e l’altra dal 2007 abbiamo fatto meglio di quasi tutti gli altri.
Regole ottuse insensate
Se c’è una regola, osserverete giustamente, va rispettata e un qualche limite insuperabile deve esistere. E’ come la polemica sul fuorigioco nel calcio. Come si fa ad annullare un gol per un solo centimetro e dopo una consultazione anche lunga del Var? Eppure, senza riferimenti oggettivi si tornerebbe alla discrezionalità ancora più odiosa degli arbitri di un tempo. Tuttavia, gli stati non possono agire come se fossero automi. Nessun investitore se la darebbe a gamba da un mercato sovrano se il deficit fiscale fosse del 3,1%, anziché del 2,9%. Conta l’insieme della politica fiscale, delle condizioni macro e delle prospettive a medio-lungo termine.
L’Unione Europea agisce come se non fosse un’entità politica, anche perché effettivamente non lo è. A non capirlo sono molti politici e milioni di cittadini, che pendono dalle sue labbra come se le sue regole fossero le tavole di Abramo. Gli episodi di questi giorni ci dimostrano che sia vero il contrario. Ha avuto senso scatenare un inferno finanziario nel 2018 con lo spread quasi fuori controllo per un deficit al 2,4%, concordato successivamente al 2,04% per l’anno successivo? Avrebbe chiuso all’1,6%, mentre l’anno successivo sarebbe esploso al 9,5% con la pandemia. A dimostrazione che focalizzarsi sui decimali è un esercizio demenziale, quando già lo stesso errore statistico porta spesso a deviazioni superiori. Gli eventi imprevisti fanno il resto.
Unione Europea costretta a diventare più politica
Sulle stesso auto elettriche sembrava che non ci fossero alternative immaginabili. Gli ambientalisti da salotto ci sbattevano in faccia le perle di saggezza dell’Unione Europea per farci intendere quanto fossimo in errore nel non comprenderne la portata salvifica e “scientifica” per le sorti mondiali. Ora che a Bruxelles è arrivato un venticello di pragmatismo, tutto è tornato nella sua dimensione naturale. La politica non si muove in base ad automatismi escogitati da tecnocrati. Tant’è vero che sono i politici ad avere preso in mano la situazione a Bruxelles dopo avere compreso il fallimento progettuale dell’eurocrazia. I custodi di quest’ultima sono rimasti sempre più isolati, pochi e screditati.