Prosegue il dibattito interno alla Banca Centrale Europea (BCE) sul taglio dei tassi di interesse. Se qualche giorno fa la consigliera esecutiva Isabel Schnabel ha avvertito sui rischi di anticipare l’allentamento monetario, il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, ha ribadito la sua posizione opposta, vicina a quella di colleghi come il portoghese Mario Centeno e, ultimamente, del francese François Villeroy de Galhau. Partecipando al convegno di Assiom Forex a Genova, ha confermato la “simmetricità” del target d’inflazione, nel senso che la BCE deve centrare nel medio termine l’obiettivo del 2% senza indulgere al rialzo o al ribasso.
E sarebbe proprio questo il rischio che Bankitalia intravedrebbe in questa fase, essendo venuto meno, a suo dire, quello di una spirale “inflazione-salari-inflazione”. Non si starebbe materializzando e, invece, sempre Panetta ha affermato che sarebbe del tutto “naturale” che i lavoratori dipendenti recuperino potere di acquisto dopo la batosta accusata con i tassi d’inflazione più elevati degli ultimi quaranta anni.
Bankitalia punta sull’aumento degli stipendi
Ed è così che Panetta reclama nei fatti un aumento degli stipendi privati dopo che il settore pubblico sta iniziando a recuperare potere di acquisto con i rinnovi contrattuali già siglati o in corso. Sarebbe un modo, ha dichiarato, per stimolare i consumi delle famiglie. In effetti, queste ultime sono diventate una componente negativa per il PIL italiano, che nel 2023 è cresciuto dello 0,7%, più della media dell’Eurozona allo 0,5%, trainato dal ritorno in attivo della bilancia commerciale (esportazioni).
Cosa significa nella pratica l’affermazione di Panetta e perché è, in un certo senso, rivoluzionaria? Il suo predecessore Ignazio Visco, in carica fino all’ottobre scorso, più volte aveva invitato alla moderazione salariale per evitare che l’inflazione nell’Eurozona restasse elevata a lungo.
Panetta reclama indirettamente un calo dei profitti
Tuttavia, chiedere l’adeguamento del potere di acquisto dei lavoratori senza impattare sui livelli dei prezzi equivale a reclamare che il costo del taglio dei tassi ricada eventualmente sulle imprese. Come? Attraverso un ridimensionamento dei loro profitti. Nell’immediato, sarebbe il solo modo per far combaciare le due opposte esigenze, ossia stipendi più alti e stabilità dei prezzi. Nel medio-lungo termine, ciò si otterrebbe con la crescita della produttività. Ma si tratta di mettere in atto strategie dai risultati tangibili non immediati, come investimenti in tecnologie, miglioramento delle politiche retributive, fusioni e acquisizioni, innovazione di prodotto, ecc.
Nel biennio passato, la stessa BCE ha registrato un aumento dei profitti in alcuni settori, tanto da avere fatto intendere in più di un’occasione che l’inflazione sarebbe stata sostenuta, al di là dell’iniziale crisi dell’energia, da una sorta di “eccesso di utili” reso possibile da aumenti dei prezzi a carico dei consumatori e che si sono tradotti in una riduzione degli stipendi reali. Non è stato così ovunque. Ne hanno certamente approfittato banche e società attive nel comparto energetico, dove non a caso i rinnovi contrattuali sono stati generosi.
Taglio dei tassi tra proteste diffuse in Europa
Il ritorno all’inflazione ha scatenato proteste sociali diffuse in paese storicamente molto stabili e pacifici come la Germania. Gli scioperi nell’ultimo anno non si contano, specie in settori come i trasporti. La questione salariale è tornata centrale dopo decenni di scarso interesse mediatico e politico, anche perché le esportazioni non sono più una certezza come in passato per spingere la crescita economica.
Panetta ha preso atto che rinviare il taglio dei tassi sul timore che i salari possano provocare una seconda ondata d’inflazione, sia utopico in economie come l’Italia. Resta il fatto che non lo sarebbe in contesti come la Germania e il Nord Europa, in cui l’occupazione è altissima e la manodopera carente un po’ in tutti i settori dell’economia.