Sono davvero significative le cifre fornite ieri dall’Istat sulla produttività, specie quella del lavoro. Prima di mostrarvele, dobbiamo fare una premessa. La produttività di un’economia segnala il suo tasso di crescita tendenziale. Essa è il rapporto tra la variazione del valore aggiunto dei vari settori produttivi e quella dei fattori utilizzati per la produzione. La produttività del lavoro, in particolare, può definirsi quale rapporto tra la variazione del valore aggiunto per ora lavorata. In economia, vige una cosiddetta regola d’oro, in base alla quale il salario varia sulla base della produttività del lavoro.
L’Istat ci ha spiegato ieri che la produttività del lavoro in Italia tra il 1995 e il 2016 è cresciuta mediamente dello 0,3% all’anno, frutto di un valore aggiunto aumentato in media dello 0,6% e del +0,3% annuo di ore lavorate. Basterebbero solamente questi numeri per capire come mai gli stipendi degli italiani siano rimasti praticamente fermi negli ultimi due decenni e passa. E’ il confronto con il resto d’Europa, però, che ci fa capire molto meglio quanto male sia messa l’economia italiana. L’istituto segnala, infatti, che la produttività del lavoro nella UE nel medesimo periodo sia cresciuta annualmente dell’1,6%, con Germania e Regno Unito a segnare +1,5% e la Francia a +1,4%, mentre la Spagna si è dovuta accontentare di un pallido +0,5%.
Stipendi in Europa più alti, ecco perché
Cosa significano queste cifre? Che in Europa, la produttività del lavoro è aumentata tra il 1995 e il 2016 di ben il 33% in più rispetto all’Italia.
Produttività stagnante non equivale a mettere i lavoratori sul banco degli imputati. Le ore lavorate mediamente in Italia risultano superiori a quelle di economie come la Germania e la Francia. E allora, com’è possibile un simile risultato negativo? Evidentemente, qualcosa non funzionerebbe su altri piani. La produttività dipende, infatti, sia dagli sforzi dei lavoratori, sia anche dal loro rapporto con gli altri fattori produttivi, ovvero il capitale. E proprio qui cascherebbe l’asino: le nostre imprese investono poco, specie in tecnologia, essendo mediamente di piccole dimensioni e sotto-capitalizzate, oltre che disincentivate a investire per via della elevata tassazione, di una burocrazia opprimente e di infrastrutture carenti, specie nel Meridione. A ciò si aggiungono elementi negativi tra gli stessi lavoratori, come lo scarso accumulo di conoscenze, ovvero un basso grado di specializzazione, conseguenza spesso di un livello di scolarizzazione inferiore al resto d’Europa, come segnalano i numeri sui laureati, nettamente più bassi che presso le economie concorrenti.
Si spiega così ufficialmente la ragione per cui gli italiani percepiscono da anni di guadagnare meno dei loro colleghi stranieri, spesso lavorando anche di più. E senza produttività a ristagnare è pure la crescita economica, innalzandosi il grado di indebitamento pubblico e rendendosi necessaria una pressione fiscale più alta, con effetti deleteri proprio sul lavoro. E’ il classico cane che si morde la coda. E cosa ancora più sconfortante, con la creazione di più posti di lavoro, grazie all’uscita graduale dalla peggiore crisi dal Secondo Dopoguerra, gli investimenti in Italia non starebbero sostenendo un’inversione di tendenza, lasciandoci prevedere stipendi stagnanti anche nei prossimi anni. (Leggi anche: Stipendi italiani più bassi negli prossimi anni)