Con la pandemia, decine di milioni di persone nel mondo hanno potuto continuare a lavorare grazie allo “smart working”. Il lavoro a distanza, perlopiù da casa, è considerato il “new normal” del mercato del lavoro post-Covid. Eppure, nei mesi scorsi il CEO di Goldman Sachs, David Salomon, ha giudicato “aberrante” questa prospettiva, chiarendo che farà in modo che entro settembre non ci sia una nuova classe di tirocinanti assunti a distanza.
Nel frattempo, anche Tim Cook chiede ai dipendenti di Apple di tornare in ufficio tre giorni a settimana, pur senza obbligo di indossare la mascherina.
Facebook per il momento sta lasciando libertà di scelta ai lavoratori, mentre Twitter ha annunciato che lo smart working per i suoi dipendenti sarà per sempre. Google ha seguito, invece, l’esempio di Apple e richiede la presenza in ufficio per tre giorni a settimana. In Italia, Unicredit consentirà ai suoi dipendenti di lavorare a distanza per un paio di giorni a settimana.
Le resistenze allo smart working
Eppure, lo smart working consentirebbe a molti lavoratori di evitare di vivere a ridosso delle sedi aziendali, spesso in aree urbane costosissime, come la Silicon Valley e New York per restare in America. In Italia, non sarebbe necessario per un giovane del Meridione spostarsi a Milano per lavorare alle dipendenze di una grossa società. Ma c’è una ragione per cui si avvertono così forti resistenze tra i dirigenti d’impresa: hanno investito sinora in sedi costosissime e centrali, che rischiano adesso di deprezzarsi molto.
Se lo smart working attecchisse definitivamente, che ne sarebbe degli enormi grattacieli nei centri delle grandi città? Rimarrebbero vuoti e infliggerebbero perdite patrimoniali alle multinazionali.