Solamente una settimana fa, la BCE aveva annunciato il taglio degli acquisti dei bond nel secondo trimestre di quest’anno per complessivi 30 miliardi di euro. Questo giovedì, invece, il governatore Christine Lagarde si rimangia la parola, parlando di un istituto
pronto a fare marcia indietro sulla riduzione dello stimolo monetario, se fosse necessario dinnanzi ai rischi posti dalla guerra.
La confusione mentale a Francoforte la fa da padrone in questa fase. Il capo economista, Philip Lane, che ha il compito imbarazzante di spiegare ai mercati cosa intenda dire Lagarde al termine di ogni conferenza stampa, ha spiegato che la BCE procederà sulla riduzione degli stimoli in base ai dati.
C’è un’espressione di Lagarde che va presa in considerazione, quasi una sorta di antitesi rispetto all’infausto “non siamo qui a chiudere gli spread” di due anni fa. Il governatore ha rassicurato che, al fine di scongiurare il pericolo di una frammentazione monetaria nell’area che inceppi il meccanismo di trasmissione delle misure adottate, la BCE può studiare strumenti che la contrastino. In soldoni, un piano anti-spread. Parole che riecheggiano la preoccupazione espressa un mese fa niente di meno che dal consigliere esecutivo Isabel Schnabel, di nazionalità tedesca e per questo ancora più interessante nelle sue esternazioni di rottura con l’ortodossia della sua patria.
Di cosa ha paura la BCE? Che tagliando gli acquisti dei bond e iniziando ad alzare i tassi d’interesse successivamente, il costo di emissione del debito cresca in misura molto maggiore in alcuni stati come l’Italia, che hanno già alti livelli di indebitamento e, pertanto, non godono della fiducia piena dei mercati.
Tassi BCE su con piano anti-spread
Un piano anti-spread automatico potrebbe funzionare così: acquisti BCE dedicati ai titoli di stato oggetto di speculazione sui mercati fino a rientrare al di sotto di un certo livello di spread rispetto ai titoli “core” della Germania alle varie scadenze. In alternativa, la BCE potrebbe dichiarare di tollerare solamente fino a determinati livelli di spread massimi (100-200 punti?), toccati i quali agirebbe sui mercati. In questo secondo caso, probabile che gli investitori neppure sfiderebbero la BCE, consapevoli che ne uscirebbero sconfitti.
Tuttavia, meccanismi di questo genere sono mal visti nel Nord Europa, dove sono forti i timori di lassismo fiscale nel Sud. Sarebbero eventualmente accettati in cambio di meccanismi altrettanto automatici nel perseguire politiche di consolidamento dei bilanci statali. Ma questo non sembra l’orizzonte verso cui l’Eurozona stia tendendo. Anzi, il Patto di stabilità così come esisteva fino alla pandemia non sarebbe più riattivato. La stessa Germania riconosce la necessità di investire di più nella transizione energetica e, adesso, anche nelle spese militari.
Del resto, c’è l’urgenza di tenere l’inflazione sotto controllo. I tassi BCE dovranno salire prima o poi, verosimilmente da qui ai prossimi 12 mesi. Per farlo, però, la politica fiscale non potrà diventare restrittiva nel medio termine, altrimenti la recessione economica sarebbe assicurata. Ai tedeschi si pone di fronte un bivio: scegliere di imboccare la strada della lotta all’inflazione o della lotta al debito.