Non va per niente giù a Silvio Berlusconi di non essere più percepito come leader della coalizione di centro-destra, meno che mai di dovere cedere lo scettro a un Matteo Salvini, che non è gli mai stato prono. Sul piano psicologico, il sorpasso della Lega su Forza Italia domenica 4 marzo è stato devastante. L’ex premier sperava non solo di rimanere a capo della prima forza politica del centro-destra, ma anche in una rimonta della sua creatura politica, come sempre era avvenuto negli ultimi anni.
Ma gli elettori non gli hanno voltato le spalle solo perché ritengono che debba godersi la meritata pensione. Il fattore credibilità è stato decisivo in queste elezioni. Berlusconi è riuscito sì a concentrare parte del dibattito elettorale sulla “flat tax”, ma arrivandoci due anni dopo l’alleato leghista, riuscendo a far credere a molti suoi elettori che si trattasse di una sua vecchia proposta del 1994. Falso. Cosa assai peggiore per lui, la disillusione è stata massima tra gli stessi ambienti super-berlusconiani. Come si può pensare che l’ex premier avrebbe tagliato l’Irpef a una sola aliquota del 23%, quando in oltre 9 anni totali di governo non si è mostrato capace di anche solo sforbiciare qualche punto percentuale ereditato dai governi passati? Quale rivoluzione liberale può intestarsi ancora, avendo dimostrato ampiamente di essere stato tutt’altro che un leader conservatore. Dei suoi governi non si ricordano né liberalizzazioni, né privatizzazioni e meno che mai tagli alle tasse e alla burocrazia.
E quando su pressione di Salvini ha preso l’impegno di riscrivere la legge Fornero, con quale credibilità è stata colta la promessa da chi quella riforma delle pensioni l’aveva votata alla fine del 2011 e senza nemmeno avere il tempo di leggerla?
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Europa fatale
C’è stato, poi, tutto il filone Europa, che dire che abbia contribuito alla sua disfatta personale è poco. Berlusconi è stato amato e finanche venerato nel centro-destra per la sfacciataggine con cui era riuscito negli anni trascorsi a Palazzo Chigi e anche dalle file dell’opposizione a tenere testa alle cancellerie europee, quando queste venivano percepite interferire con gli interessi nazionali. Egli resterà sempre nell’immaginario collettivo come l’uomo che quel 2 luglio del 2003, travolto dai fischi all’Europarlamento, definì un allora anonimo Martin Schulz “kapò”, imbarazzando gli alleati del PPE, ma allo stesso tempo dando sfogo a un popolo, quello di centro-destra in Italia, che si sentiva accerchiato e deriso dalle istituzioni di Bruxelles.
E, invece, che ti fa Silvio in questa campagna elettorale? Si mette a recitare il ruolo di difensore della UE, stringendo la mano al presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, abbracciando l’odiata (da lui stesso) cancelliera Angela Merkel, quella che sarebbe stata oggetto di un suo epiteto pesante in un colloquio privato intercettato. E ciliegina sulla torta: nomina a 3 giorni dalle elezioni Antonio Tajani, presidente dell’Europarlamento, candidato premier di Forza Italia, commettendo due errori imperdonabili. Il primo, perché ha dimostrato di avere così scarso riguardo verso i suoi elettori da avere trascinato la candidatura fino agli sgoccioli della campagna elettorale, come se chi votasse Forza Italia non avrebbe avuto il diritto di conoscere in tempo per quale potenziale premier avrebbe messo la X sulla scheda.
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Bocciata la linea europeista
Il fatto triste di tutta la vicenda è che Berlusconi non si è votato all’Europa per convinzione, bensì per pura convenienza. Gli elettori lo hanno capito benissimo e lo hanno bocciato sonoramente. Egli puntava a riaccreditarsi sul piano internazionale, dimenticando per la prima volta nella sua impressionante carriera politica che la legittimazione viene dal popolo e non da investiture tecnocratiche o di cancellerie straniere. Ha giocato a fare l’europeista in funzione anti-Salvini e il suo stesso popolo non ha gradito. Così come non ha gradito anni di flirt con il centro-sinistra che tanto aveva disgustato nei 20 anni precedenti, arrivando a fare una campagna elettorale dai toni teneri verso il PD. Imperdonabile per chi dal centro-destra chiedeva e chiede un’alternativa ai governi targati dem.
Infine, un errore nell’impostazione del dibattito. Ha trascorso tutte le ultime settimane di campagna elettorale a parlare male dei grillini, definendoli buoni a nulla, uomini senza arte e né parte, prestati alla politica e privi di un mestiere. Ammesso che sia vero, anche in questo caso il fattore credibilità è stato per lui un boomerang. Per caso, tra i suoi parlamentari non esistono frotte di mestieranti della politica, che senza un seggio sarebbe destinati alla disoccupazione? Può nascondere l’ex premier che Forza Italia sia da decenni affollata da personaggi, che con il mondo del lavoro non hanno nulla a che spartire? Con una battuta, si dirà che Berlusconi ha lavorato un po’ per tutti coloro che appartengono al suo partito, ma resta appunto una battuta.
Adesso, l’uomo si sente un leone ferito, umiliato da chi ritiene in cuor suo inferiore per qualità politiche e umane.
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La fine del berlusconismo
Che l’uomo abbia perso la bussola, lo spiega bene anche il fatto che dal 4 marzo ad oggi non si sia mai rivolto agli italiani direttamente, ma solo tramite un video registrato e un post su Facebook, umiliando anche in questo caso i suoi stessi elettori, di fatto lasciati privi di un leader che ci metta la faccia pubblicamente nella difficile gestione del dopo elezioni. Sa di essere a capo di truppe sfiduciate e anziché fare auto-critica, avrebbe già individuato nel suo avvocato e fedelissimo Niccolò Ghedini il responsabile della sconfitta, in quanto avrebbe preparato lui le liste. Come se le magre percentuali di voto, specie al sud, siano dipese dal candidato Tizio o Caio che Ghedini avrà catapultato in questo o quel collegio.
La disperazione di Berlusconi è tanto più forte, quanto più egli riconosce di non avere un successore a cui affidare le redini del partito. I nodi sono arrivati al pettine, dunque. Dopo un quarto di secolo trascorso a ostinarsi a non individuare una leadership capace, adesso è costretto a piangere lacrime amare nel verificare che la guida della coalizione sia passata a un uomo non suo, bensì di un altro partito e che gioca su più tavoli nelle trattative per il prossimo governo, ovvero strizzando l’occhio al nemico pentastellato. E pensare che Silvio pensava che dal 5 marzo avrebbe fatto lui il bello e cattivo tempo, mandando alle ortiche la coalizione e governando allegramente con Matteo Renzi, magari confidando che questo suo comportamento supino lo avrebbe portato nel 2022 al Quirinale.
Adesso, si rifiuta di entrare nella dimensione post-berlusconiana sancita dalle urne e si arrampica sugli specchi per sventare accordi tra Lega e M5S sulla spartizione delle presidenze delle Camere e vorrebbe gestire in prima persona le trattative per formare il governo. Non ha capito che non ha più le chiavi della coalizione, sebbene sia innegabile il suo essere un punto di riferimento essenziale per chiunque in quel campo voglia muoversi. E le voci di frizioni dentro Forza Italia tra fedelissimi (pochissimi) e “salviniani” non fanno che confermare la fine della leadership berlusconiana. Ma difficile che molli e accetti la realtà, più facile che distrugga ciò che resta di Forza Italia, mandandola allo sbaraglio su posizioni irricevibili per l’elettorato. Doveva essere “la più grande resurrezione dai tempi di Lazzaro”, per dirla alla Bloomberg di qualche mese fa; invece, è stato il crepuscolo dell’uomo che fu.
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