PD e Movimento 5 Stelle invocano la legge Severino, approvata lo scorso anno, per spiegare che il voto della Giunta delle elezioni del Senato e poi del Senato stesso sulla decadenza di Silvio Berlusconi dalla carica di senatore, in seguito alla conferma della condanna in Cassazione sui diritti TV Mediaset, altro non sarebbe che un adempimento tecnico, un atto formale, perché “di diritto” il Cavaliere sarebbe già da considerarsi decaduto.
Legge Severino e decadenza
Ma a studiare la legge Severino, tutto si potrà dire, tranne che l’esclusione del senatore Berlusconi sia un fatto automatico. Vediamo perché.
La bozza di legge entrata in Cdm il 5 dicembre 2012 era effettivamente netta e chiara: “Qualora una causa di incandidabilità … sopravvenga nel corso del mandato elettivo, essa comporta la decadenza di diritto della carica, che viene dichiarata dalla Camera di appartenenza” (art.3, comma 1).
Se la norma esitata dal Cdm e poi votata dal Parlamento fosse stata questa, effettivamente per il Cavaliere non ci sarebbero state più speranze. La Camera di appartenenza, nel caso specifico, il Senato, si sarebbe dovuta limitare a prendere atto della condanna in Cassazione, dichiarando decaduto Silvio Berlusconi da senatore della Repubblica. Ma le cose sono andate diversamente. Il testo fu modificato in Cdm del 6 dicembre 2012 nel modo seguente:
Al comma 1 sparivano le diciture “di diritto” e “ai fini della dichiarazione di decadenza”, mentre facevano la loro comparsa “ai sensi dell’art.66 della Costituzione” e “ai fini della relativa deliberazione”. Cosa significa? Che il consiglio dei ministri aveva nei fatti stravolto la bozza iniziale, attenuando di gran lunga la portata automatica della previsione del ministro Severino, sostituendola con un atto politico vero e proprio: nessuna decadenza automatica; la Camera di appartenenza avrà l’onere di deliberare o meno sulla permanenza del parlamentare in carica.
Stesso concetto ribadito al comma 2 del medesimo articolo, quando la dicitura “dichiarazione di mancata convalida del soggetto incandidabile” viene sostituita da “deliberazione sulla mancata convalida”. Il comma riguarda non già i parlamentari, ma i candidati eletti, per i quali è arrivata una sentenza definitiva di condanna in fase di convalida, ossia prima di insediarsi formalmente in una delle due Camere. Anche in questo caso, se la bozza iniziale prevedeva che la Camera di appartenenza fosse costretta automaticamente a prendere atto della mancata convalida, la previsione uscita dal Cdm garantisce alla stessa la facoltà di decidere nell’uno o nell’altro senso.
La Camera deve deliberare la decadenza
Ma il Cdm modifica ulteriormente in data 21 dicembre 2012 il testo, eliminando dal comma 1 dell’art.3 la dicitura “ai fini della relativa deliberazione”, mantenendo la parola “deliberazione” nel secondo comma e così come resta il riferimento all’art.66 della Costituzione. L’esito finale è stato un compromesso di termini tra PD e PDL, volto ad evitare spaccature, ma che di fatto ha salvato l’impianto del 6 dicembre. In altre parole, la permanenza del riferimento alla Costituzione e del termine “deliberazione” al secondo comma non lasciano dubbio alcuno: la decadenza dalla carica di un parlamentare o la mancata convalida dell’elezione non sono automatiche, qualora sia intervenuta una sentenza di condanna definitiva. E’ la Camera di appartenenza a dovere “deliberare” nel pieno della sua autonomia.
Le manfrine del PD sul punto sono la foglia di fico per coprire la responsabilità di un atto che è politico e non meramente tecnico.
Se la Giunta per le elezioni prima e Palazzo Madama poi voteranno per la decadenza dalla carica di senatore di Silvio Berlusconi, la decisione sarà il frutto di una volontà “politica” della maggioranza di escludere il Cavaliere dal Parlamento. Egli, in ogni caso, resterebbe candidabile, se è vero quanto abbiamo detto in merito al secondo comma dell’art.3 di cui sopra.