Gli ispettori del Fondo Monetario Internazionale hanno messo piede a Islamabad nella giornata di martedì. Il governo del premier Shehbaz Sharif spera di convincerli che il Pakistan meriti i 6,5 miliardi di dollari di aiuti di cui necessita per alleviare la grave crisi economica e finanziaria che la attanaglia. Per questo, pur sotto elezioni, lo scorso fine settimana ha aumentato il prezzo della benzina del 16% a 250 rupie, circa 85 centesimi di euro. Dolori per una popolazione già molto povera, eppure la misura è indispensabile per ridurre il deficit di bilancio dal 7,9% del 2022.
Il Pakistan avrebbe bisogno di importare tra benzina e diesel per circa 1,3 miliardi di dollari al mese, ma le sue riserve valutarie sono vuote: appena 3,7 miliardi. Basterebbero per meno di un mese di importazioni di beni e servizi. Per questo il governo ha dovuto cedere anche a un’altra richiesta del Fondo Monetario: la svalutazione. Ha ridotto la difesa del cambio e la rupia è crollata fino a 270 contro il dollaro. Su base annua, segna -34%. Come se non bastasse, il costo delle importazioni cresce per effetto anche dell’esplosione dei prezzi di materie prime come il gas. Ed ecco che l’inflazione a dicembre è stata del 24,5%.
Situato tra India, Cina, Afghanistan e Iran, basterebbero questi confini a segnalare quanto importante sia il Pakistan sul piano geopolitico. Aggiungiamoci anche una popolazione sui 235 milioni di abitanti, quattro volte l’Italia, quasi totalmente mussulmana e tra cui serpeggia un certo radicalismo religioso. Consideriamo che le relazioni con l’India sono storicamente penose e che il paese è considerato il padrino dei talebani afghani. Infine, negli ultimi anni si è allontanato dall’Occidente per abbracciare il piano cinese della Via della Seta.
Pakistan sull’orlo del crac finanziario
Al suo interno, il Pakistan è dilaniato da una crisi politica esplosa lo scorso anno con la sfiducia dell’ex premier Imran Khan, già celebre giocatore di cricket. Insomma, ci sono tutti gli ingredienti per fare esplodere il caos in un’area del mondo di per sé poco tranquilla. Gli aiuti saranno essenziali per evitare il collasso finanziario definitivo, ma potranno arrivare solo dietro una stretta monetaria e fiscale dagli esiti di breve termine socialmente e politicamente costosi. Anche perché parliamo di un paese con un PIL pro-capite di appena 1.500 dollari. Le agenzie di rating suonano l’allarme con giudizi poco superiori al default conclamato: CCC+ per S&P e Fitch, Caa1 per Moody’s.
I bond in dollari a 5 anni superano il 32% di rendimento annuale. In generale, i bond pakistani denominati nella divisa americana hanno perso il 55% del loro valore in appena un anno. Più settimane passano e più le esigue riserve impediscono al Pakistan di importare alcunché, con la conseguenza che la carenza di beni diventa sempre più marcata e l’inflazione galoppa. Ma le istituzioni locali hanno paura di abbandonare del tutto il cambio ai meccanismi di mercato. Temono che il valore della rupia implodi così tanto da fare esplodere il carovita, al contempo rendendo impossibile allo stato e alle stesse imprese privati di onorare il loro debito estero.
Quello del Pakistan è tutt’altro che un caso isolato. Nei mesi scorsi è stato lo Sri Lanka a collassare a causa del prosciugamento delle riserve valutarie. In questi mesi, anche l’Egitto sta vivendo una situazione disperata. Ha già svalutato il cambio tre volte in un anno, ma non basta per fare fronte alla domanda crescente di dollari.