Il mercato obbligazionario in Russia è stato quest’anno il più redditizio tra gli emergenti. Il recupero delle quotazioni del petrolio, risalite di quasi il 25% da inizio 2019 e portatesi sui 67 dollari attuali, non ha potuto che beneficiare Mosca, seconda produttrice ed esportatrice mondiale di greggio con rispettivamente la media di 11 e 5 milioni di barili al giorno. La ripresa dell’oro nero, pur ancora a quasi 20 dollari meno dei picchi a cui era arrivato nell’ottobre scorso, ha rafforzato il rublo, che contro l’euro ha messo a segno quest’anno un raggiante +7,2%, scendendo a un rapporto di 74.
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Senonché, oggi come oggi il cambio risulta sostanzialmente dimezzato rispetto a quasi 5 anni fa, sostenendo i ricavi in valuta locale derivanti dalle esportazioni. A fronte di un Brent venduto ad appena il 60% del suo valore (in dollari) di metà 2014, infatti, un barile rende oggi in rubli oltre il 20% in più di quando le quotazioni sostavano sui 115 dollari, beneficiando le entrate statali.
La solidità fiscale contribuisce a ridurre i rendimenti sovrani, con i decennali scesi quest’anno di 26 punti base all’8,47% e i biennali di 22 bp al 7,64%. Considerando che l’inflazione, pur in rialzo ai massimi da 2 anni, sia risultata al 5,2% a febbraio, ne consegue che la curva delle scadenze russa si mostri interamente positiva, un fatto ormai quasi anomalo presso le principali economie avanzate, ad eccezione parziale degli USA. E così, l’indice dei bond governativi russi segna un buon +2,8% quest’anno, mentre quello corporate un più contenuto +2%. Anche i titoli emessi in valuta estera forte si sono apprezzati mediamente del 2,3%.
La performance dei bond russi
Pertanto, chi a inizio anno avesse investito sul mercato obbligazionario russo in valuta locale, oggi si porterebbe a casa tra il 9% e il 10% di guadagno totale, per i tre quarti grazie al rafforzamento del rublo contro l’euro. E per il futuro? La Banca di Russia ha alzato i tassi due volte dall’estate scorsa, portandoli al 7,75%. Il governatore Elvira Nabiullina, contrariamente ad altre banche centrali emergenti, dimostra da sempre una forte autonomia operativa rispetto al potere politico, compreso il presidente Vladimir Putin, potendo reagire credibilmente e tempestivamente alle mutevoli condizioni macroeconomiche con una politica monetaria sempre appropriata. I tassi reali positivi rappresentano la precondizione per contenere l’inflazione e ciò suonerebbe come una buona notizia per i bond, trattandosi di un mercato a reddito fisso, le cui cedole salgono di valore reale proprio con la decelerazione della crescita dei prezzi.
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Sulla Russia, però, si allungano le solite ombre geopolitiche. L’Ucraina resta una ferita non rimarginata nelle relazioni con l’Occidente e la Casa Bianca non intende eliminare le sanzioni contro Mosca per l’occupazione della Crimea. Ora che la maggioranza alla Camera è in mano ai democratici, veementi sostenitori della linea dura contro Putin, diventa meno probabile che il presidente Donald Trump riesca nella sua impresa di riavvicinamento al Cremlino. Il rischio principale per la finanza russa consiste nello scenario più cupo, per quanto ad oggi poco probabile, di sanzioni americane extra-territoriali, simili a quelle comminate all’Iran. In pratica, Washington escluderebbe dal circuito finanziario a stelle e strisce, il più importante al mondo, quanti – investitori istituzionali e individuali – acquistassero debito emesso da stato e società private russi, così da soffocare l’economia ex sovietica e indurre Putin a cedere.
I rischi di natura geopolitica
Per questo motivo, la performance dei bond russi, per quanto positiva, non si mostra all’altezza delle sue potenzialità, scontando un rischio sempre in agguato. Lo stesso dicasi per il tasso di cambio. Del resto, la percentuale di obbligazioni di stato in mano agli investitori esteri si aggira oggi attorno a un quarto, in forte ripresa rispetto ai minimi dei mesi scorsi, ma giù dall’apice del 35% di fine 2017, quando l’amministrazione Trump aveva fatto immaginare una maggiore sintonia tra Casa Bianca e Cremlino, ad oggi lontana dal concretizzarsi anche per le forti resistenze interne all’America. Per contro, la Russia non è un mercato emergente qualsiasi. Dicevamo, la politica monetaria è condotta in maniera opportuna, così come il cambio è stato lasciato libero di fluttuare al primo accenno di crisi, cosa che ha impedito il verificarsi di uno scenario venezuelano, con riserve valutarie prosciugate e carenza diffusa di beni. Viceversa, oggi le riserve in valuta estera si attestano a quasi 483 miliardi, di cui 91 in oro, solamente una decina in meno rispetto ai picchi pre-crisi di 5 anni fa, con il doppio del metallo giallo.
Valute forti e tanto oro in cassa mitigano gli eccessivi rischi sul fronte cambio e del debito sovrano. Oltre tutto, quest’ultimo incide solamente per il 13-14% del pil e nel 2018 il bilancio dello stato ha chiuso in attivo del 2,7% del pil, due indicatori più che positivi sullo stato di salute delle finanze moscovite. Non solo: il dollaro sembra avere toccato l’apice contro le altre valute, emergenti comprese. Con il taglio dei tassi o almeno la fine della stretta monetaria da parte della Federal Reserve, dovrebbe indebolirsi e ciò beneficerebbe il rublo due volte: rafforzandolo direttamente e incrementando le quotazioni delle materie prime (in dollari), tra cui il petrolio.
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