Dici Maldive e pensi spiagge e vacanze da sogno e bagni in acque cristalline. In queste settimane, invece, l’arcipelago sta facendo parlare di sé per un possibile default legato al bond islamico, l’unico emesso sui mercati internazionali e denominato in dollari Usa. Esso arriverà a scadenza per un importo di 600 milioni l’8 aprile del 2026 e stacca su base annua una cedola del 9,875% (ISIN: USG5852MAA02). Tra poche settimane, il Tesoro dovrà procedere al pagamento della cedola semestrale per poco meno di 30 milioni.
Default meno probabile per il mercato
In effetti, a luglio le sue riserve valutarie, oro incluso, ammontavano a meno di 400 milioni. Da notare che le Maldive presentano un deficit commerciale strutturale, vale a dire che importano dall’estero per un controvalore costantemente maggiore a quello delle esportazioni. Anche le partite correnti sono negative, segno che l’afflusso dei capitali non riesce a compensare gli squilibri commerciali.
Il bond islamico o “sukuk” di cui sopra era arrivato a quotare poco più di 67 centesimi agli inizi del mese. Nei giorni scorsi, toccava i 79 centesimi e ieri ripiegava parzialmente in area 77,60 centesimi. Un bel guadagno superiore al 15% in brevissimo tempo per coloro che avevano scommesso sul titolo nel suo momento (sinora) peggiore. Cosa ha giustificato la risalita? La scorsa settimana, le autorità di Maldive e Cina hanno annunciato un accordo per potenziare reciprocamente commercio e investimenti. Per molti il segnale che Pechino voglia impedire il default, così da allungare le mani su un altro pezzo di Oceano Indiano.
Salvataggio grazie alla Cina?
La Cina è il principale creditore delle Maldive con 1,37 miliardi di prestiti concessi e di recente prorogati. L’India segue a lunga distanza e in primavera ha esteso di 124 milioni il suo prestito.
La risalita del bond islamico si deve anche alla speranza che l’accordo alla lunga possa rimpinguare le riserve valutarie, stimolando le esportazioni. Tuttavia, il principale impedimento al salvataggio deriva dallo squilibrio macro persistente causato anche dal fattore cambio. La rufiyaa è legata al dollaro da un tasso fisso di circa 15,35. Prima o poi sarà necessaria una sua svalutazione per consentire alle esportazioni di riprendersi e ai capitali di affluire. Immaginando che questa fosse nell’ordine del 30%, il valore del debito denominato in valuta americana esploderebbe altrettanto rispetto al Pil. E già le Maldive posseggono un debito pubblico al 120% del Pil.
Bond islamico resta sotto osservazione
Il default verrà evitato solamente se i prestiti bilaterali saranno rinegoziati, probabilmente allungandone la scadenza e abbassandone i tassi. Senza tali soluzioni, neanche il Fondo Monetario Internazionale interverrebbe elargendo un qualche prestito. Anzi, per esso sarebbe necessario anche coinvolgere i creditori privati, obbligazionisti inclusi, nelle perdite. Dunque, o la Cina s’imbarcherà in tempi brevi nel salvataggio o lo spettro del default per il bond islamico tornerà a farsi ancora più preoccupante molto presto.
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