Il mercato sovrano turco è collassato nella giornata di ieri. Il bond a 10 anni è schizzato a un rendimento del 18,84%, in rialzo di oltre 470 punti base rispetto alla chiusura precedente. Male anche la scadenza a 2 anni, salita dal 15,75% al 18,40%. Il crollo non ha risparmiato neppure i titoli denominati in valute estere. Ad esempio, il bond in dollari con scadenza 17 febbraio 2045 e cedola 6,625% (ISIN: US900123CG37) è imploso dell’11,2% a poco più di 86 centesimi, offrendo un rendimento in salita all’8,34%. E quello che sarà rimborsato in data 17 marzo 2036 con cedola 6,875% (ISIN: US900123AY60) ha perso l’8%, scendendo sui 95 centesimi e salendo al rendimento del 7,55%.
Se conoscete la legge di mercato “buy dips and sell the rips”, starete senz’altro facendo un pensierino ai titoli turchi. In fondo, ogni crollo diventa occasione di acquisto, a meno che di non prevedere che le cose si mettano di male in peggio per cui sarebbe bene lasciare perdere. Chiediamoci quale ragionamento dovremmo compiere sui bond turchi.
Bond Turchia, rendimenti esplosi in poche ore
Bond in lire e valute forti
Il boom dei rendimenti in lira turca alletta. Avremmo l’opportunità di investire percependo fino al 19% all’anno. Tutto vero, ma ci esporremmo a un rischio di cambio altissimo. La lira turca ha perso negli ultimi 5 anni il 64%, cioè la media di oltre il 10% all’anno. E ci sono state fasi ben più gravi, come nell’estate del 2018, quando il cambio arrivò a implodere contro il dollaro del 45%. Non solo. Da ieri, circola la forte sensazione che Ankara imporrà controlli sui capitali per frenare i deflussi in atto. Se così, potreste ritrovarvi nell’impossibilità di vendere gli assets in valuta domestica e di monetizzare gli eventuali guadagni.
A questo punto, lo sguardo si rivolge ai bond in dollari o euro. Ebbene, qui non vi esporreste a un rischio di cambio elevato e se acquistaste i titoli in euro, non correste alcun rischio di cambio affatto.
In alternativa, potrebbe andare “all in” sul deprezzamento della lira per rimpinguare le riserve (le esportazioni verrebbero sostenute e le importazioni scoraggiate), ma anche in questo caso si presenterebbe un altro grosso problema: il valore dei debiti denominati in valute forti diverrebbe esoso per i conti pubblici turchi. Si rischierebbe una crisi fiscale. Adesso capite perché la Turchia, pur a fronte di un rapporto debito/PIL in area 35%, abbia rating molto bassi, declassati a “non investment grade” negli ultimi anni: B+ per S&P, BB- per Fitch e B2 per Moody’s.
Bond Turchia, solo il rialzo dei tassi potrà arrestare la corsa dei rendimenti