Non è stata di certo positiva la reazione del mercato obbligazionario al taglio dei tassi annunciato giovedì scorso dalla banca centrale turca. E non poteva essere altrimenti, data l’inflazione sopra l’80%. L’assenza di raziocinio nella politica monetaria adottata da Ankara ha penalizzato i bond in dollari emessi dalla Turchia e negoziati sul mercato secondario. La scadenza a 3 anni, 5 febbraio 2025 e cedola 7,375% (ISIN: US900123AW05), lasciava sul terreno lo 0,9% venerdì, scendendo a una quotazione di 95,26 centesimi e offrendo un rendimento del 9,88%.
Infine, il bond in dollari con scadenza 15 gennaio 2030 e cedola 11,875% (ISIN: US900123AL40), perdeva l’1,25% e quotava 107,50, rendendo il 10,40%. Rendimenti esplosivi, che ai più sembreranno ingenerosi per un paese con un debito pubblico poco sopra il 40% del PIL. Va detto che tali cali dei prezzi risentono anche del rialzo dei rendimenti americani. Il quinquennale USA stava al 3,95% venerdì. Lo spread della Turchia su questa scadenza è, dunque, di 630 punti base scarsi o 6,30%.
Rating bond Turchia “spazzatura”
Tuttavia, dovete considerare che i bond della Turchia siano “non investment grade” per le agenzie di rating. I giudizi pessimi sono legati al fatto che il sistema economico sia molto esposto verso l’estero. I soli debiti a 12 mesi in valute straniere superano i 180 miliardi di dollari, mentre le riserve valutarie non arrivano a 75 miliardi. Solo la continua svalutazione della lira turca eviterebbe una crisi della bilancia dei pagamenti, sebbene a sua volta scatenerebbe prima o poi una crisi finanziaria per via dell’insostenibilità proprio di tali debiti esteri. Il loro valore in valuta locale non fa che aumentare per imprese, banche e stato.
Non è un caso che il costo dei CDS a 5 anni, i titoli che assicurano contro il rischio default, sia schizzato a 744 punti base.