La banca centrale turca non ha tagliato i tassi d’interesse al board di ieri, prendendo atto dell’inflazione esplosa sopra il 36% a dicembre e del collasso del cambio a -44% nel 2021. Il costo del denaro resta fermo al 14%, anche se era al 19% a settembre. In termini reali, è a -22%. I bond sovrani della Turchia sono tornati a respirare un po’. Il rendimento decennale viaggiava sopra il 24% prima del board, mentre oggi è sceso al 22,61%. Più alto il rendimento a due anni, al 23,07%.
Il governatore Sahap Kavcioglu aveva sostanzialmente le mani legate. Se avesse continuato a tagliare i tassi, la lira turca sarebbe precipitata a livelli ancora più infimi, surriscaldando ulteriormente l’inflazione. A quel punto, la banca centrale sarebbe dovuta intervenire vendendo valute straniere. Ma le sue riserve valutarie sono già molto carenti. Peraltro, il crollo della lira e il boom delle quotazioni energetiche stanno impattando negativamente sui conti pubblici, costringendo il governo a sussidiare le aziende di stato. Il deficit fiscale a dicembre risulta salito a 145,7 miliardi di lire, mentre nell’intero anno si è attestato a 192,3 miliardi, pari a 21,6 miliardi di dollari e con ogni probabilità intorno al 3% del PIL.
L’importante è non confondere una tregua con la fine della guerra. I bond della Turchia non sono un’opzione d’investimento per il canale retail. Troppo alto il rischio di cambio, a cui da qualche mese si è aggiunto il crescente rischio di credito. Pur in calo dai massimi toccati a dicembre, il prezzo dei “cds” a 5 anni, i titoli che assicurano contro il default, sono saliti a 560 punti base dai 386 di due mesi e mezzo fa. Il piano del governo per tutelare i depositi bancari in lire dalla volatilità del cambio può considerarsi a tutti gli effetti un rialzo dei tassi mascherato e tutto a carico dei contribuenti. In teoria, nel tempo può impattare molto negativamente sui conti pubblici, rendendo il debito meno sostenibile.