Piazza Affari guadagna quest’anno oltre il 15% e l’indice FTSE MIB si porta ai massimi dalla crisi finanziaria scatenata dal crac di Lehman Brothers, avvicinandosi ai 26.000 punti. Ma la borsa italiana è tutt’altro che in forma. Alla fine del 2007, le società quotate a Milano esibivano una capitalizzazione di 731 miliardi di euro, mentre alla fine del 2020 risultavano valere solo 607 miliardi. Pur con il rialzo in corso, restano sotto i livelli di quasi 14 anni fa.
In rapporto al PIL, la borsa italiana valeva il 36% a fine 2020, molto meno del 48% del 2007.
Secondo uno studio della Banca d’Italia, vi sarebbero almeno 2.000 piccole e medie imprese che potenzialmente farebbero ingresso nella borsa italiana. Ma uno studio della Consob ci fornisce una dinamica del tutto diversa. Analizzando 174 Offerte Pubbliche di Acquisto (OPA) realizzate tra il 2007 e il 2019, ha scoperto che in oltre il 60% dei casi (109) hanno puntato al delisting, cioè al ritiro della quotazione da Piazza Affari. E l’incidenza con il tempo non ha fatto che salire, arrivando al 90% dei casi nel 2019, cioè prima della pandemia.
La fuga dalla borsa italiana
In altre parole, quando un investitore “scala” una società quotata, lo fa con l’obiettivo di porre fine alla negoziazione del titolo presso la borsa italiana. Evidentemente, non si fida o non è soddisfatto delle valutazioni del mercato. In effetti, nell’ultimo quindicennio, di passi in avanti ne abbiamo compiuti pochi. Se nel 2007 risultavano quotate 344 società, alla fine del 2020 erano ancora 377. Del resto, la raccolta dei capitali a Milano non può essere considerata soddisfacente, se è vero che l’indice principale resti nettamente sotto i livelli del 2007, mentre nel frattempo in Germania è raddoppiato e in Francia supera del 10% i massimi toccati allora.
Le società quotate presso la borsa italiana scontano principalmente due problematiche: basse valutazioni e bassa liquidità degli scambi. Per non parlare della volatilità legata alle vicissitudini politiche ed economiche del Bel Paese. Tutto ciò che è legato al marchio Italia sui mercati finanziari sconta criticità per effetto della cattiva reputazione di cui gode il nostro Paese tra gli investitori. Il rischio sovrano incide anche sui costi del debito emesso da società e banche private. In generale, per il solo fatto di essere italiane le quotate scontano un prezzo da pagare, in termini almeno di valutazioni inferiori a quelle che avrebbero avuto se fossero state straniere.
E non si tratta di discriminazione, semmai di presa d’atto della realtà. Le azioni rappresentano il valore attualizzato dei profitti futuri di una società. L’economia italiana è l’unica grande nel mondo a non essersi ripresa dalla crisi del 2008-’09. Alla fine del 2019, il nostro PIL reale risultava del 4% più basso rispetto al 2007. Insomma, non cresciamo, ma andiamo indietro. In uno scenario del genere, difficile immaginare che le società italiane che operano prettamente sul mercato domestico possano aumentare i profitti o anche solo mantenerli invariati nel tempo. Se i consumi ristagnano, gli investimenti non decollano e la produttività non va da nessuna parte, le valutazioni non potranno che rimanere basse.
I mali storici del capitalismo familiare italiano
C’è anche un fattore culturale a cui porre attenzione. Gli italiani non sono propensi al rischio e difficilmente comprano azioni. Preferiscono puntare su asset più o meno sicuri, come le obbligazioni. Questo deprime i corsi azionari. Non solo. Le stesse imprese credono poco alla borsa italiana. La tendenza di chi le gestisce, il più delle volte i discendenti dei fondatori, è di affidarsi all’indebitamento verso le banche per reperire risorse con cui investire.
Infine, difficilmente le società italiane risultano scalabili. Il capitale è in mano a poche, grosse famiglie del capitalismo domestico, le stesse da secoli. E questo comporta un paio di conseguenze: in pochi investitori vogliono comprare azioni di minoranza, sapendo che non riuscirebbero in alcun caso ad incidere sulla gestione aziendale per cercare di migliorare le valutazioni. Inoltre, esistono scarsi incentivi a gestire efficientemente un’impresa di cui si controlla senza alcuna ombra di dubbio la maggioranza del capitale e dei voti in assemblea. Nessuno potrà soffiarla da sotto il naso, neppure volendo.
Resta anche da vedere quale sia il ruolo degli ETF. I fondi a gestione passiva incidono sempre più sull’allocazione dei capitali e puntano semplicemente a replicare i risultati degli indici sottostanti. Quanti di questi vorranno investire nell’FTSE MIB, consapevoli che non cresca da anni? Come il cane che si morde la coda, quindi, l’afflusso di capitali verso la borsa italiana si riduce, le quotazioni ristagnano e a loro volta rendono sempre meno allettante per le imprese sbarcare a Piazza Affari.