Mancano nove mesi alle elezioni presidenziali e per il rinnovo del Congresso in Brasile e serpeggia abbastanza nervosismo tra le agenzie di rating, che dal 2015 hanno privato la prima economia latinoamericana della valutazione di “investment grade”, declassando i suoi bond a “junk” o “spazzatura”. Venerdì scorso, S&P ha tagliato ulteriormente il suo giudizio sovrano da “BB” a “BB-” con outlook stabile, citando la peggiore efficacia e tempistica della politica economica rispetto alle attese, nonché i rischi derivanti dalle urne.
Il quadro politico resta confuso. Sarebbero ad oggi almeno cinque i candidati alla presidenza, tra cui l’ex presidente Luis Inacio Lula da Silva e il deputato ex militare della destra radicale Jair Bolsonaro, rispettivamente accreditati dai sondaggi per la prima e la seconda posizione. Il centro è conteso da ben tre esponenti, ovvero il ministro delle Finanze, Henrique Mereilles, il governatore di San Paolo, Geraldo Alckmin, e il presidente della Camera, Rodrigo Maia. A potere sparigliare le carte potrebbe essere la star della televisione, Luciano Huck, che forte della sua popolarità acquisita con la sua trasmissione del sabato pomeriggio da quasi 20 anni e seguito da 43,4 milioni di fans sui social, si specula possa scendere in campo e conquistare buona parte dell’elettorato meno ideologizzato, sebbene il diretto interessato abbia smentito.
Il ritorno di Lula
Il segretario del Partito dei Lavoratori, Gleisi Hoffman, intervistata da Bloomberg News, ha rassicurato che Lula non sarebbe un radicale e che l’opposizione del suo partito alla riforma delle pensioni non sarebbe ideologica, bensì ad alcune misure specifiche in essa contenute, come l’imposizione di un’età minima per lasciare il lavoro.
E’ un fatto, tuttavia, che la sinistra da lui capeggiata sia ostile a ogni riforma varata dall’attuale governo e punterebbe a smantellarne le politiche, se tornasse a guidare il Brasile dopo una pausa di appena due anni e mezzo. Lula è stato condannato in primo grado per abuso edilizio e altri reati e il suo nome aleggia nella maxi-inchiesta sulle tangenti attorno al colosso petrolifero Petrobras. Tuttavia, la pesante recessione del 2015-’16, seguita da una ripresa di appena l’1% del pil nel 2017 (si stima una crescita del 2,8% per quest’anno) e la quasi totale disillusione per una classe politica corrotta e percepita anni luce distante dalle esigenze dei cittadini hanno rinvigorito proprio colui, le cui politiche di spesa pubblica negli anni d’oro del boom delle materie prime sarebbero state la vera causa della crisi fiscale di questi anni. (Leggi anche: Il Brasile spera di chiudere la tangentopoli con un maxi-risarcimento)
La calma dei mercati
Il declassamento ad opera di S&P non ha fermato la corsa dei bond e della Borsa di San Paolo. I rendimenti decennali sono scesi al 9,92% dal 16,7% di 2 anni fa, mentre l’indice Ibovespa da allora ha guadagnato ben il 110%. In effetti, se le elezioni rappresentano un fattore di rischio, la discesa dell’inflazione sotto il target del 3-6% della banca centrale dovrebbe spingere il governatore Ilan Goldfajn a tagliare ancora i tassi dall’attuale 7%.